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BIOGRAFIA

Ottiero OttieriBiografia di mio padre
di Maria Pace Ottieri

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«Dal fascismo adolescenziale all’antifascismo il più accanito, dall’industria e dall’osservazione complice dell’esperienza operaia, al set, al jet set, alla clinica e all’amore. Voleva essere un sindacalista playboy. Sull’industria il libro più noto è Donnarumma all’assalto. Sul set L’impagliatore di sedie, sul jet set I divini mondani, sulla malattia morale L’irrealtà quotidiana e in versi, o meglio in cadenze, La corda corta. Sull’amore, I due amori e Vi amo. È un bipolare, vale a dire che dalla sua depressione zampillano euforie pericolose, perché scavano la fossa alla prossima, dolorississima caduta. È un bipolare secondo Cassano, ossessivo e compulsivo. Secondo lo psicoanalista Zapparoli, non tollera il piacere, ha bisogno della continuità della sofferenza. Non può scrivere, vivere se non si intossica: alcol, sigarette, tè forte, caffè. Esistenza malsana. Il suo pancreas comincia a risentirne. Che muoia presto? Sotto l’ansia permanente saltano le valvole della macchina meravigliosa. Lei ha un terrore della morte, direbbe Zapparoli, a Milano. Le allungo una buona vita, dice, a Pisa, Cassano».

Così si descrive, nell’Autodizionario degli scrittori italiani di Felice Piemontese (Leonardo, 1989) Ottiero Ottieri, autore autobiografico per eccellenza, almeno secondo una delle definizioni che insieme a quella di “scrittore della fabbrica” e “scrittore della clinica”, hanno sempre cercato di riparare alla difficoltà di catalogarlo nei generi letterari tradizionali.

Eppure, come scrive Carla Benedetti (“New York Review of Books”, 1999) «di ‘privato’ nei libri di Ottieri c’è una cosa sola: il punto da cui muove la scrittura… Ed è questa insolita parola diretta a mettere a disagio i letterati, non l’eccesso di autobiografia. Perché di fatto quanto alla materia che Ottieri accumula nei suoi testi, richiamata dalla voragine spaventosa che si apre nel soggetto che scrive (sopra a quel nulla panico che sgorga in continuazione dalla polla del suo petto di ansioso dipendente che deve perennemente saziare il craving,) essa è tale da poter contenere tutto il mondo storico e sociale in cui ci troviamo immersi».

Ottiero Ottieri è nato a Roma il 29 marzo del 1924 da antica famiglia toscana. Ha vissuto a Roma come un normale ragazzo di buona famiglia, ha studiato al Collegio Massimo dei Gesuiti e si è laureato in Lettere a 21 anni, con una tesi sulle operette amatorie di Leon Battista Alberti, una tesi stilistica di stretta osservanza scientifica, in cui si contavano anche le virgole. Ha cominciato a scrivere a quattordici anni, sulla terrazza di un alberghetto a Villabassa, descrivendo le Dolomiti.
Per un certo periodo si dedicò alla letteratura greca traducendo (e pubblicando giovanissimo presso l’editore Capriotti), l’Agamennone di Eschilo, preceduto di un saggio introduttivo.
Dopo la laurea ha seguito un corso di perfezionamento in letteratura inglese, ha tradotto un dramma elisabettiano di Cyril Tourneur, pubblicato nel volume Teatro elisabettiano di Sansoni e sul medesimo autore del dramma apparve un suo saggio su “Inventario”, nell’estate del 1950, dal titolo I personaggi negativi di Tourneur. Nel 1946 aveva cominciato a collaborare alla Fiera Letteraria, poi ad altre riviste e a quotidiani.
Nel 1947 vinse il Premio Mercurio per un racconto dal titolo L’isola sulla rivista omonima, diretta da Alba De Cespedes.

Le collaborazioni sporadiche a riviste e giornali, tuttavia, non lo soddisfacevano.

Era cominciata la crisi del dopoguerra, la rivolta contro la filologia specializzata, contro gli ambienti letterari chiusi, contro l’arte pura e le élite, era cominciata la scoperta della realtà sociale.
Nel 1948 si trasferì a Milano. Ne La linea Gotica scrive: «Ho lasciato il 2 febbraio, a 23 anni, Roma per Milano. Ho lasciato la letteratura, la casa agiata dei miei, la nevrosi di figlio unico… Il viaggio. Lo strappo, come tira al di là di Firenze. Solo, appoggiato con la testa sul tavolino dello scompartimento, dalla stazione scendo su una Milano nera dentro una malinconia nera». E ancora: «Sono un intellettuale di sinistra, sono venuto qui per esserlo, come uno va a frequentare una scuola in un’altra città… Roma è il mio essere, Milano il mio dover essere», la città del lavoro, dell’impegno civile e morale. A Milano, appena arrivato, vive in una modesta pensione e cerca lavoro, un lavoro il meno letterario possibile, per uscire dal mondo chiuso degli interessi umanistici, e affacciarsi agli studi sociali e psicologici.
Fa l’analisi con Cesare Musatti, frequenta la sede del PSI e collabora all’“Avanti”, psicoanalisi e politica sono gli strumenti per entrare nella vita. Viene assunto dalla casa editrice Mondadori, come assistente di Guido Lopez, capo dell’ufficio stampa. Pubblica in questo periodo articoli su “Pesci Rossi”, “Il pensiero critico” e “Omnibus”.

Nel 1951 entra a far parte dell’Anonima Periodici Internazionali svolgendovi attività giornalistica, fino a dirigere la rivista mensile di divulgazione scientifica “La Scienza Illustrata”. Questo lavoro lo aiuterà a scoprire il mondo della tecnica, il mondo dell’industria e dei rapporti umani del lavoro industriale, a vedere con i propri occhi il problema del rapporto fra l’operaio e la macchina così come l’aveva letto in Marx, fu questa, per lui, la vera scoperta di Milano.
Seguiva intanto anche l’altra pista culturale, quella della psicologia moderna, la psicologia del profondo (è stato redattore della rivista “Psyché”) considerandola «uno strumento per uscire dalla… incoscienza. Così a Milano si era abbastanza bene avviato sulla strada della coscienza, quando si ammalò nel giugno 1953, di una meningite, improvvisa, un fulmine a ciel sereno». Fu ricoverato per quattro mesi nella clinica fiorentina del dottor Cocchi, l’unico, a quell’epoca, in grado di curare la meningite. Tre anni prima, nell’aprile del 1950, a Lerici, aveva sposato, Silvana Mauri, figlia di Umberto Mauri, futuro presidente delle Messaggerie Italiane e nipote di Valentino Bompiani, la prima di cinque fratelli. Si erano conosciuti a Roma, la sera del referendum del 2 giugno, in casa di amici comuni. Più tardi, si rividero nella redazione romana di “Italia Domanda”, un giornale diretto da Cesare Zavattini, che ebbe vita breve e si rincontrarono poi per la strada, a Milano, dove Ottiero era appena arrivato.
«Leggeva la ‘Gazzetta dello Sport’», ricorda Silvana, «aveva l’aria sperduta, mi disse che era solo, non conosceva nessuno. Lo invitai a cena da noi e l’indomani si presentò con i fiori». La casa ospitale e sempre piena di amici della famiglia Mauri divenne per lui un punto di riferimento.

Quando si ammalò era stato da poco assunto, con l’incarico di selezionatore del personale, all’Olivetti, l’industria che credeva nei manager intellettuali, Geno Pampaloni, Paolo Volponi, Giovanni Giudici, Franco Fortini. Avrebbe dovuto cominciare nel mese di luglio e Adriano Olivetti, figura di industriale colto e illuminato, gli spedì ogni mese lo stipendio per tutto il periodo della malattia. Impossibile restituirlo. Una volta guarito, gli propose di riprendere il lavoro di selezionatore in un clima migliore di quello di Ivrea o di Milano, nella sede della nuova fabbrica sul mare di Pozzuoli.

Il manoscritto del suo primo libro Memorie dell’incoscienza, scoperto da Elio Vittorini, era intanto in via di pubblicazione presso Einaudi. La prima stesura del libro risaliva al 1947, cioè a prima della partenza da Milano, corretta e rivista poi nel 1952. È un libro giovanile, di cui Ottiero disse, più tardi, che apparteneva alla sua preistoria, ma che vi restava qualcosa che continuava a considerare vitale: un certo fascismo interpretato psicologicamente, cioè come incoscienza, come aspetto e categoria di un infantilismo politico che in Italia è stato ed è molto diffuso. La storia si svolge nell’estate del 1943 in un paese della Toscana, più esattamente tra il 25 luglio e l’8 settembre, il periodo dell’armistizio “badogliano”. Il titolo si giustifica col fatto che tutti i personaggi del romanzo vivevano sotto il segno di un’incoscienza psicologica e politica. Il protagonista Lorenzo Bandini vuole suicidarsi per amore di una donna e per amore del sacrificio arruolarsi con i tedeschi. La vita del paese, prima e dopo la frattura dell’armistizio, il carattere degli ufficiali tedeschi, i rapporti sentimentali subiti secondo meccanismi crudeli ma inconsapevoli, e soprattutto il fascismo quale ignoranza della realtà, sono i temi principali del libro.

Il secondo libro di Ottiero, pubblicato da Einaudi, è Tempi Stretti, il romanzo di fabbrica per eccellenza, la grande industria dall’interno, in un momento di trasformazioni e di difficili lotte sociali.

«Avevo scoperto Marx» spiega Ottiero. «La conseguenza fu che non vivevo affatto i problemi della forma e del linguaggio, se non in modo inconsapevole. Ne uscì Tempi Stretti, libro sommamente industriale di tipo naturalistico… un libro faticosissimo, lavoratissimo, e scritto con i piedi, poi rivisto e corretto in una seconda edizione».

Il 1 marzo del 1955 con Silvana e una bambina, Maria Pace, si trasferisce a Pozzuoli. Fu per lui un periodo molto intenso e felice, la scoperta del Sud di cui conserverà per tutta la vita una grande nostalgia. Da quest’esperienza scaturirà, nel 1959, Donnarumma all’assalto il suo libro più celebre, pubblicato da Bompiani, da ora in avanti suo editore per diciassette anni. Nel protagonista, un disoccupato senza qualifiche, disposto a tutto pur di avere un posto nella luminosa fabbrica aperta al Sud da una grande industria del Nord, Ottiero coglie tra i primi la drammaticità del contrasto tra il progresso tecnico e materiale e l’arretratezza culturale della civiltà contadina meridionale.

Adriano Olivetti gli offrì di restare a Pozzuoli come direttore del personale della fabbrica, ma Ottiero, a malincuore, rinunciò, temendo di non aver abbastanza tempo per scrivere. Tornò a Milano dove si accordò per un nuovo contratto di consulente a metà tempo. Olivetti gli offrì la promozione a dirigente che non si sentì di accettare, considerandola privilegio eccessivo nei confronti di chi lavorava tutto il giorno.

Dal 1948 al 1958, Ottiero aveva tenuto un diario. Calvino, a cui chiese di leggerlo per primo, pur giudicandolo molto significativo e interessante, non la ritenne un’esperienza abbastanza conclusiva da diventare un libro e gli suggerì di pubblicarne una scelta su “Nuovi Argomenti”. Lunghi brani del diario di Ottiero usciranno così nel 1961, nel quarto numero de “Il Menabò”, la rivista di Vittorini e Calvino, con il titolo Taccuino Industriale, consacrandolo così il pioniere della cosiddetta “letteratura industriale”. Solo più tardi, nel 1963, l’intero diario, sarà pubblicato da Bompiani con il titolo La linea gotica e vincerà il Premio Bagutta di quell’anno.

Tre anni prima, nel 1960, era nato il secondo figlio, Alberto.

Einaudi aveva pubblicato una commedia satirica sul linguaggio dei venditori, I venditori di Milano, rappresentata al Teatro Gerolamo di Milano, per la regia di Virginio Puecher.

Dalla metà degli anni Cinquanta alla metà degli anni Sessanta, Ottiero collabora con “Il contemporaneo” e con “Il Mondo” con articoli di attualità e racconti, e più a lungo, fino alla metà degli anni Settanta, con “Il Giorno”. La stagione industriale è esaurita, Ottiero è in cerca di una nuova materia letteraria, di una tensione esplorativa fuori dal mondo della letteratura nel quale e del quale vive ma che non lo ha mai ispirato.

Tonino Guerra lo chiama a Roma a collaborare alla sceneggiatura del film L’Eclisse di Michelangelo Antonioni, per raccontare la nevrosi che corrode esistenze e rapporti e Ottiero scopre il cinema, se ne entusiasma e subito viene preso dalla smania di mettersi in proprio e misurarsi con questo nuovo “mestiere poetico organizzativo”. L’impagliatore di sedie (Bompiani, 1964), è una storia realistica, immaginata come una sceneggiatura o racconto “comportamentistico” fatto di azione, gesti, linguaggio parlato. Dietro la tentazione di sperimentare una nuova tecnica narrativa si nasconde altro. Ottiero lo spiega nella prefazione: «Così ho tentato senza pudore e senza gusto dell’orrore di mettere in scena momenti in cui la ragazza, tanto ragionevole e intelligente peraltro, si abbandona ad attività interiori esteriori che di solito sono segrete perché (secondo il parere di un illustre psichiatra) chi le ha provate non può ricordarle, chi non le ha provate non può immaginarle, e chi le sta provando non può trascriverle».

Come accade per molti dei suoi libri L’impagliatore non rappresenta che l’uovo della gallina che sarà il libro successivo. Nella stessa prefazione Ottiero confessa di tendere ora ad un «informale psicopatologico» e di rimandare a un libro futuro «l’esplorazione degli spazi cosmici soggettivi che stanno nell’uomo e nella donna fra la disperazione e la ragione». Quello che lo interessa indagare della malattia dell’anima, è la ricorrenza di sintomi comuni da individuo a individuo, identici e universali che emanano da un nocciolo diverso, indicibile ed eccezionale per ciascun individuo. «Ciascuno vive l’esperienza di una solitudine completamente originale e quindi non comunicabile e insieme di una somiglianza che lo lascia protocollare dentro classifiche in cui trova larga compagnia. E in cui trova più probabilmente, la vera consolazione, perché la classificazione è il punto di forza di ogni ragion pratica guaritrice, il più lungo nutrimento della speranza».

Il cinema è anche un pretesto per vagheggiare un ritorno a Roma, città amata e rimpianta, quanto Milano gli appare sempre più come una “metropoli stecchita” (il primo titolo della Linea gotica, era stato proprio Le due città).

Nel 1963, è invitato dall’università di Yale a tenere una conferenza. Odia le conferenze ma ha una tale voglia frenetica di vedere New York che scrive un piccolo studio dal titolo Dolce vita, vita industriale e vita assurda. «E così dopo tanto raccontare storie di uomini e di donne, quasi per la prima volta raccontai delle idee generali mettendole in ordine». È un altro germe di quel racconto di idee che sarà L’irrealtà quotidiana, saggio romanzesco, il cui personaggio principale è l’alter ego. Vittorio Lucioli, è uno scrittore che scrive la sua autobiografia culturale, dal 1939, sulla soglia della guerra, al soprassalto della Resistenza, alla rivolta contro i padri, all’infatuazione socio-marxista, fino alla novità, che attrae e respinge, dell’alienazione.
«La tematica del mio primo libro è stata ripresa, sia pure saggisticamente, da L’irrealtà quotidiana. Ad ogni libro mi sembra sempre di partire da zero. Non scrivo col mestiere, ma con la vita. La letteratura industriale sta in mezzo tra Memorie dell’incoscienza e L’irrealtà quotidiana, la quale rappresenta un ritorno alle origini».

Se nella crisi del ’45 gli aspetti psicologici e individuali erano subordinati agli aspetti collettivi e storici, nella crisi a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta avviene il contrario, esaurimento nervoso, come allora si definiva la nevrosi ed esaurimento storico coincidono. Tenuto a bada e dirottato fin qui nel dramma economico e tecnologico, il male dell’anima esplode come alterazione del modo di vivere certi fatti normali, comuni a tutti, oscillazione ambivalente tra mondanità e forte sentimento di irrealtà.

Che cos’è il sentimento d’irrealtà? Ottiero lo descrive così: «Il sentimento d’irrealtà è una passione senza carne, un senso strano che il cervello stia sopra e di fianco al mondo (come un astronauta in una passeggiata spaziale)… Ripensavo a tutti i pensieri della mia vita e tutti si agganciavano l’uno dietro l’altro come vagoni di un treno. L’irrealtà era la locomotiva…».

L’Irrealtà quotidiana viene accolto come un libro nuovo e importante e vince il Premio Viareggio per la saggistica. Geno Pampaloni, sul “Corriere della Sera” scrive: «Solo un vero ingegno di scrittore poteva riuscire nell’ardua prova di oggettivare i dati, estremamente soggettivi, di una fantasia che si misura non nel proprio momento inventivo, ma sull’infelicità e sulla malattia che usurano oggi la società e la persona».

Ottiero è in piena stagione mondana, feste, locali notturni, luoghi di villeggiature alla moda, vernissage, diligente nell’assecondare la nuova compulsione a una sociologia della fatuità, tanto da attribuirsi da solo il soprannome di Salottiero Salottieri e da meritarsi un feroce epigramma di Franco Fortini:

Come eri meglio ieri
Quando non eri noto
Nuovo devoto al vuoto
Ottieri.

La mondanità gli serve per stare legato agli altri, «la mondanità e o snobismo si sono sostituiti all’amore alla solidarietà e sono la mia unica alterità».

Ne I divini mondani, uscito nel cruciale1968, osserva e scruta un mondo agli antipodi di quello operaio e industriale che lo ha interessato fino a poco tempo prima, ma solo in apparenza.

Il filo che lega I divini mondani a L’irrealtà quotidiana, dirà Ottiero a Ferdinando Camon in un’intervista pubblicata ne Il mestiere di scrivere (Leonardo, 1977), è «il timore del Vuoto: dietro il mondo luccicante e fastoso della mondanità si nasconde il classico pericolo del vuoto, in tutto simile alla processione del sentimento d’irrealtà».

Il tema del libro è «l’esplosione del tempo libero, ossia la teorizzazione del tempo libero come tempo fondamentale dell’uomo. L’uomo deve affrontare il problema di non poter lavorare. Questa è un’utopia, i divini mondani sono persone straricche mantenute da altre che lavorano e quindi oggi sono degli esempi teatralmente reazionari, però io ritengo che si possa, sia pure paradossalmente osservare in queste persone completamente libere, certi modi di vita che potrebbero essere quelli ancora utopici di una società di domani. Il problema psicologico di organizzare il divertimento è di un’enorme importanza: dal modo in cui una persona passa il week-end si può farle una diagnosi psicoanalitica. Inoltre nei Divini Mondani c’è la stessa ripetitività ossessiva dei Tempi Stretti».

Da uno scacco della prosa, Ottiero si ritrova per la prima volta a scrivere in versi ne Il pensiero perverso (Bompiani, 1971).

«La poesia è un’irruzione razionale, nasce senza che io la premediti» dice in un’intervista a Lea Vergine (Gli ultimi eccentrici, Rizzoli, 1990 ). «Sono un narratore, tutti i miei libri di poesia nascono come per miracolo. O forse nascono da un fenomeno di estenuazione della prosa».

E aggiunge: «Non sopporto più le descrizioni, le lentezze della narrazione in prosa. Coi versi posso andare dritto al centro del problema e poi altro vantaggio, la poesia è più vicina al procedimento mentale psicoanalitico, quello che in linguaggio chic si chiama associazione involontaria e che detto terra terra suona: andar di palo in frasca».

Per pudore e rispetto di quella che considera vera poesia, Ottiero preferisce definirla prosa ritmica o “righe corte” la sua poesia non metaforica dove il pensiero ossessivo arriva sulla pagina senza mediazioni e lo scrittore ingaggia con il malato un corpo a corpo per ingannare la malattia e trasformare la sofferenza psichica in occasione di invenzione, di gioco, di manipolazione infinita.

«Scrivo nel pochissimo tempo lasciatomi libero dal pensiero ossessivo… ».

Di certo “questa specie di poesia” è la forma che meglio aderisce all’andirivieni del suo acrobatico cervello rotto dalle antinomie, dai sussulti del dubbio, dal travaglio della scelta, la più adatta a riprodurre le spire del pensiero ossessivo la cui caratteristica è di non potersi distrarre, a rappresentare l’incalzare dell’ansia, l’avvitamento della coazione a ripetere.

La scrittura aderisce all’esperienza della depressione psichica anche in Campo di concentrazione, (Bompiani, 1972, Premio Selezione Campiello), diario scritto nel corso di un lungo ricovero nella clinica junghiana di Zurigo.

Ottiero Ottieri«E la letteratura?» si chiedeva già nell’Irrealtà quotidiana. «Non ho mai scritto in questo modo evitando totalmente lo stile. Scrivo unicamente per sopravvivere, scrivo per scrivere, per gettare un ponticello sopra l’abisso, per essere nella realtà e nello stesso tempo per estrarmi dalla realtà…».

Per Ottiero la scrittura è una ragione di vita, la necessità di svolgere la spirale dell’ autoanalisi riflessiva fino in fondo (ma non c’è fondo) identificandosi al suo sintomo. «La cuspide della vita è scrivere nella notte, della malattia», che significa esporsi alla malattia, farsene scorticare, e insieme perlustrarla, scandagliarla, fino a scioglierla in scrittura.

Ma non si tratta di scrittura terapeutica, è piuttosto una forma di resistenza alla malattia, (la sofferenza eccessiva è muta) e di ribellione al potere di quei padroni della psiche, psichiatri, psicoterapeuti, che vorrebbero guarirlo dall’odiata ma necessaria nevrosi. «Io non voglio la chimica felicità, voglio la beatitudine che discende dall’amore».

Con Contessa (Bompiani, 1976) Ottiero torna al romanzo, «il più bello che abbia scritto fino a ora,» secondo Giuliano Gramigna, «anche più bello di quell’affascinante diario-esame che s’intitola Campo di concentrazione». … È la storia di una donna ansiosa, Elena, dietro cui lo scrittore si ripara per timore di eccesso autobiografico, che cerca di reagire al terrore del mistero della vita moltiplicando i propri gesti e moltiplicando così la sua stessa ansia.

E di nuovo ai versi con il poemetto narrativo tragico satirico La corda corta, (Bompiani, 1978).

Ottiero sperimenta, adopera tutti gli strumenti possibili per afferrare e descrivere il movimento del tirannico pensiero ossessivo, è in piena “neoprivatizzazione” dei suoi interessi, dice, con il suo formidabile orecchio per stanare i gerghi con anni d’anticipo.

Nel 1979 esce Di chi è la colpa, dieci dialoghi, tra le operette morali e un atto unico teatrale, in cui un solo personaggio e interlocutori sempre nuovi e diversi si interrogano con ritmo e ironia su chi abbia la responsabilità dei mali del vivere attuale.

Ancora due romanzi I due amori (Einaudi, 1983) sul dramma della scelta tra due donne, Tullia e Caterina e Il divertimento (Bompiani, 1984), con una protagonista donna, alle soglie dei quarant’anni, alla ricerca di un amore diverso, meraviglioso. Nel 1985 i due libri in versi scritti fin qui, Il pensiero perverso e La corda corta, insieme a una raccolta di ottanta poesie inedite dal titolo L’estinzione dello stato, un ritorno ai temi ideali e civili dei suoi primi libri, vengono pubblicati dall’editore Marsilio in un unico volume dal titolo Tutte le poesie.

Un altro romanzo, Improvvisa la vita (Bompiani, 1987), la ricerca della felicità , il sogno di una vita nuova, di un corpo nuovo, all’inseguimento disperato di un amore, e di un vagheggiato altrove e una raccolta di poesie Vi amo (Einaudi, 1988), su padri e figli, Milano e Roma, il disincanto e l’elegia, l’ansia e la tenerezza, la sincerità della confessione e l’ambiguità del gioco letterario.

Sono anni di fervore creativo, la nevrosi è fluida, inventiva, mai identica a se stessa e scrivere è per Ottiero una necessità psicologica, uno scrittore ha bisogno di essere scrittore. Scrive molto, (dice di essere affetto da graforrea), sempre a mano, su alti quaderni scolastici, possibilmente neri, a letto come Proust o più spesso in cucina mentre Carmen, la filippina, taglia le zucchine con imperturbabile e affettuoso distacco, quell’umore lineare che suscitava in lui tanto stupore. Silvana, la sua “sposa infinita”, lo ha sollevato da qualunque obbligo della vita pratica ed è pronta ad assecondarlo, sempre. Lo vuole vedere, o sperare, felice.

«Se penso alla vita di uno scrittore,» racconta Silvana «mi viene in mente un gioco della “Settimana enigmistica” che si chiama ‘Pista cifrata’. Ti dicono di collegare tra loro i puntini e apparirà una figura. Tu lo fai, magari a fatica perché i numeri dei puntini sono quasi invisibili. Ma il disegno definitivo è duro a venir fuori. Spunta prima un occhio, poi una zampa, poi il naso. E alla fine, se proprio insisti, c’è il rischio che compaia un’immagine insensata: che so, un orso che sta mangiando un ananas».

I desideri di Ottiero sono per lei irresistibili, è disposta a massacranti trasferte estive, Taormina, Ischia, Capri, pur di vederlo contento. Ottiero vuole rivedere la fabbrica sul mare e Giancarlo Cosenza, figlio dell’architetto che l’ha disegnata, li accompagna all’Olivetti di Pozzuoli.
L’emozione è forte, c’è ancora la sua stanza, la sua scrivania, almeno quanto la delusione per quanto i luoghi intorno siano diventati irriconoscibili…

Ottiero ha nostalgia del Sud, anche se poi, una volta arrivatoci, non esce mai dalla stanza d’albergo. Fiuta l’ambiente, parla a lungo con i camerieri, si fa raccontare la loro vita, i loro sogni, distogliendoli dal servizio. Dentro il gentiluomo educato, docile, mite fino alla passività c’è un bambino capriccioso, anarchico, cocciuto, che finisce per ottenere ciò che vuole: restare chiuso in macchina a fumare nella pancia del traghetto in navigazione tra Capri e Napoli, contro ogni regolamento, per esempio.

Un’estate abbandonerà il Sud per il Grand Hotel di Rimini, determinato a verificare sul posto, sempre dalla sua stanza, che cosa sia un “divertimentificio” e che luoghi siano le discoteche. «Il paradosso di Ottiero era questo,» scrive Silvio Perrella, «dalla malattia nasceva la possibilità di scrutare la vita così com’è, dolore e ilarità».

Conosce lo psichiatra Franco Cassano, fa subito sua la definizione di bipolare, un modo nuovo, importato dall’America, per dire maniaco depressivo, ovvero per indicare la possibilità dinamica di vivere i due opposti, lo sbattere tra pericolose euforie e ricadute depressive, buio della psiche e luce della ragione, terapia psicoanalitica di Giancarlo il freudiano e terapia chimica organica di Cassano, l’americano. Il disordinato del cuore e del cervello, lo “scorticato vivo”, aspira a un ordine che lo guarisca, spera ostinatamente in una catarsi e insieme teme di non sopportarla, di essere ormai inadatto a vivere nella normalità, di ritrovarsi artisticamente disarmato.

Dopo un lungo ricovero alla clinica di San Rossore di Pisa, Ottiero sta meglio, resta però il problema dell’alcolismo, Cassano lo indirizza allo psichiatra-alcologo Luigi Gallimberti di Padova e lentamente, grazie all’Alcover, uno sciroppo di cui Ottiero è una delle prime cavie, non berrà più.

«Io posso avere molte felicità, ma la mia è una felicità di tipo eccitato; mi auguro di poter avere una felicità non eccitata».

Dal soggiorno a San Rossore, nasce, nel 1991 L’infermiera di Pisa (Garzanti, Premio Mondello) un nuovo poemetto in bilico fra letteratura e psicoanalisi, di cui Giuliano Gramigna scrive: «Verso, sofferenza ed enunciato teorico non sono più separabili. Vorrei vedere quanti altri scrittori italiani sarebbero capaci di simile combustione alchemica».

Il narratore si trasforma in un originalissimo poeta satirico con un altro poemetto Il palazzo e il pazzo (Garzanti, 1993), «scrittura necessaria/un cardo/non un garofano…», che, ancora una volta, trascrive le fasi della terribile nevrosi-tossicomaniaca in una versione moderna della poesia epica sarcastica, beffarda ed esilarante. «Chi è poeta tragico è anche comico, il comico classico ride e fa ridere sulla scena, poi si uccide».

Nel 1993, con Storia del Psi nel centenario della sua nascita Ottiero inaugura il passaggio all’editore Guanda. È un’ autobiografia politica in cui ripercorre la «marcia di avvicinamento alla condizione operaia di quell’operaista fanatico che era un piccolo agrario» seguita da un breve poema sul complesso rapporto col padre, agrario e fascista. Ma ciò che è politico si può trattare con l’inconscio? E il principio del piacere si concilia con quello di rivoluzione? È proprio questo intrecciare la politica con la psicologia la sua invenzione più importante, «un colpo al sesso e uno alla nazione».

Quello che scrive in questi anni è un lungo poema ininterrotto, globale, lo definisce Andrea Zanzotto, in cui una stessa voce disperata e comica, sarcastica e drammatica, intima e universale, trova il giusto passo per ritmare l’incalzare della sofferenza personale, raccontando insieme la nevrosi collettiva, nazionale, senza mai rinunciare alla «caccia infuriata di quella felicità dello scrivere e dello stile dietro a cui salta agli occhi la felicità del testo» (Enzo Siciliano).

Da La psicoterapeuta bellissima (Guanda, 1994) che si compone di due parti, la prima che dà il titolo al libro e la seconda, Le guardie del corpo, al Diario di un seduttore passivo (Giunti, 1994), racconto in versi delle sue avventure nelle cliniche tra depressi, alcolizzati, schizofrenici che si interrogano su malattia, conoscenza, amore, morte, fino al punto d’arrivo de Il poema osceno, (Guanda, 1996, Premio Comisso all’opera e Premio Fiuggi). È un libro di oltre cinquecento pagine, un fiume in piena di prose narrative e versi, estremo, carnale, nella sua furia di un’ossessione erotica fantasticata (“casanovismo oculare e dongiovannismo virtuale”), in cui, in una smania di possesso totale del mondo e di tutto ciò che vi accade, Ottiero riesce a dire «anche ciò che per natura si negava ad essere detto» (Andrea Zanzotto).

Arroccato nel fortino della sua casa di via San Primo nel cuore di quella Milano dal cielo bianco che da tempo ormai detesta, Ottiero esce di rado. Si concede delle brevi vacanze romane all’Hotel Locarno dove gli piace ricevere le visite degli amici e mettere il naso a una festa.

«Ottiero ignora i monumenti e trascura il paesaggio a beneficio di quello personale coi problemi e le angosce dell’uomo di oggi. Sprofondato in quei problemi e in quelle angosce come in un grembo inabitabile. Ottiero è nato per scrivere, tra un libro e l’altro finge di vivere» (Valentino Bompiani).

Eppure non gli sfugge niente, senza uscire di casa vede cose di cui gli altri non si accorgono. Esplorando se stesso, Ottiero vede il mondo: guarda molto e per la prima volta nella sua vita la televisione, ha ripreso a leggere, ed è tornato alla passione politica della sua giovinezza. L’assillo di conoscere e di capire non lo ha mai abbandonato, l’indagine minuziosa sulla sua sofferenza non gli ha mai fatto perdere di vista le situazioni storiche e culturali generali. Tutti i suoi libri sono ispirati dall’idea di letteratura come verità e dalla necessità di intrecciare il racconto della sua permanente crisi personale con la crisi sociale, di fare della malattia il passaggio obbligato alla comprensione della società.

Conserva una profonda passione della vita e della realtà, gli piace interrogare, parlare con Silvana, con i figli, i nipoti Virginia, Leon e Gregorio, le infermiere, il barbiere, il fisioterapista, i tassisti che lo accompagnano dai medici, gli amici che vengono in visita la domenica pomeriggio, a tutti con lo stesso tono leggero e le stesse parole, semplici ed esatte. Dice di aver sostituito alla lettura il colloquio con le persone, «l’unica cosa che riesco a leggere è la personalità degli altri», i non intellettuali di cui scrive. È un punto di riferimento per giovani poetesse, aspiranti scrittori, disturbati di ogni grado, studentesse incerte sul futuro, li ascolta, li fa ridere, li colpisce con frasi precise come frecce e in cambio si fa portare da loro il mondo di fuori.

Ottiero non ha mezze misure, quando sta bene, è ilare, lieve, spiritoso.
«Scrivere è blobbare, acchiappare tutto con ironia, l’altra faccia della malinconia». Cogliere al volo e in anticipo i miti, le manie, gli slogan e i gerghi della contemporaneità e trascinare nel vortice della realtà-metafora della sua malattia top-model, personaggi politici, cronaca, pubblicità, nuove tendenze.
È incuriosito dal successo delle soubrette televisive, vuole vedere che cosa c’è di reale in loro e in uno dei suoi soggiorni a Roma intervista Valeria Marini, per “Diario della Settimana”, a cui per amicizia e simpatia ogni tanto si diverte a mandare articoli e invettive.

Nel 1997 Ottiero sorprende i suoi lettori con De morte, un libro provocatorio che così definisce: «la mia unica parola nuova è nominare la morte in un ambiente che la tace per convenienza». Dichiara di essersi scocciato di prendere sempre in giro se stesso e gli altri e di pensare al tramonto dell’«ironia incalzata dalla coscienza di avvicinarsi al senso della vita che non si può prendere per il sedere».

«Vorrei aggredire la morte con una manovra a tenaglia come Annibale e Napoleone con un’armata laica e con un’armata religiosa. Voglio vedere se c’e un piccolissimo sistema per non morire mai; c’è? C’è. La fede. Ho comprato il libro del Papa ma soltanto un santo può praticare quel cattolicesimo e forse nemmeno lui, mi ha deluso».

È del 1998 Una tragedia milanese (Guanda) il dolore che si abbatte sul successo di una famiglia borghese milanese e del 1999 Cery (Guanda), considerato da alcuni critici il suo libro più narrativamente compatto. In una clinica svizzera per alcolisti il protagonista lotta per affermare la propria indipendenza dal male e sfidare i medici che lo curano, mai come qui la malattia diventa una rivendicazione di libertà e di rivolta contro le definizioni e le strategie di cura.
A una serata dedicatagli dal Teatro Pier Lombardo di Milano, Ottiero dice: «Un poeta italiano oggi aspira ai massimi livelli, per lo meno Dante. E vuole divenire poeta civile. Sul corpo del nostro paese compaiono di continuo tali macchie di miseria materiale e morale, che un poeta deve cantarle per indicarle e deve cantare gli sforzi per detergerle. Ve lo dice un poetino incivilissimo che fin’ora si è dedicato solo a se stesso. Ma ora una letteratura che non faccia riferimento a una filosofia, a una religiosità, a una politica, ha i giorni contati».

Con la sua beffarda capacità premonitiva, Ottiero intitola il suo ultimo libro Un’ irata sensazione di peggioramento. Ne scrive cinque versioni, a biro, sui suoi grossi quaderni scolastici a righe, uno sforzo anche fisico, enorme. Non esce più, le gambe non lo sostengono. «Io prenderei un taxi per andare dal salotto alla cucina», dice, ma più si sottrae al mondo esterno, più si fa violenta la sua invettiva satirica contro la volgarità delle cose e dei comportamenti di una società e di una classe dirigente mediocre, votata al dogma lucente di fine secolo, il denaro, l’unico valore, il supremo.

Pietro Mura, è il suo ultimo alter ego, «eterno moribondo che teneva molto alla vitalità e alla vita», avanti e indietro tra Milano e Torino, dall’inizio degli anni Novanta a oggi, e tra disperazione e speranza di guarigione, follia individuale e follia collettiva. La voce narrante dello scrittore alcolista mena fendenti contro i politici, si scaglia contro la violenza fredda del potere economico e la civiltà della disgregazione, rivendicando il suo posto nel triangolo del mondo: «In alto i potenti, in basso gli umili e i difensori degli umili anche se di origine potente».
Si rammaricava, proprio in questo libro, di essere molto più noto come depresso che come scrittore, si è sempre chiesto se il marchio antiletterario fosse un danno o un vantaggio. Sfuggire alle definizioni è stata la sua sfida, la libertà di addentrarsi in molte pieghe del modo di pensare, interrogarsi, esprimersi del nostro tempo.

Temeva la boa degli ottanta anni. È morto a 78, di attacco cardiaco nella sua casa di Milano, il 25 luglio 2002.

«Resta come uno scoglio a parte nella letteratura del secondo Novecento, non solo della nostra» (Andrea Zanzotto).

© Elisabetta Catalano