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RECENSIONI

LA PSICOTERAPEUTA BELLISSIMA (1993)

L’ IRONIA NEL LABIRINTO
di Silvio Ramat
(«il Giornale», 18 novembre 1994)

Nel nuovo libro di Ottiero Ottieri La psicoterapeuta bellissima (Guanda), scopro una rima-sintomo,
una rima-chiave: «“non faccio paura/tranne che con la malattia/ e la scrittura». Fra “paura” e
“Scrittura”, la “malattia”: motivo antico in Ottieri se pensiamo a Tempi Stretti (1957). Ma allora era
l’alienazione che colpisce chi pratichi fino a restarne stritolato gli ingranaggi del neocapitalismo, una
“macchina” che l’“olivettiano” Ottieri conobbe a fondo negli anni di Ivrea. Oggi il “mostro” di
quell’epoca non c’è più (forse); la malattia ci si annida più addentro. Il reale visibile si produce a Rai
Tre o nella villa di Arcore: il mondo si polverizza in blob, si parla via fax. E quanto al “despota”,
Ottieri più non lo odia né lo teme, anzi gli invidia quell’“autostima” che fa di lui un invitto; e si
domanda: «Perché io che so tanto bene/come stanno le cose/non riesco, non posso/divenire despota?».
Una occhiuta lucidità d’autore governa sia le guardie del corpo -odissea recitata da un «alieno/anziano
e osceno»- sia quella sorta di copione-racconto che apre il libro e gli fornisce il titolo. Fra le due parti, a
far da collante è la morte, o l’idea della morte, prossima: mentre ne Le guardie del corpo, va morendo
anche un canone, un modo d’essere della poesia, negli strappi di un verseggiare ritmato e libero, un po’
alla Palazzeschi, ma volto al tragico. Ne la La psicoterapeuta bellissima , se non ho sbagliato a contare,
muoiono in sette; si fa prima dicendo che non sopravvive che Tomaso, il “filosofo” e marito della
“psicoterapeuta” Giada. Ricalcando magistralmente gli stereotipi del costume e dell’eloquio
fineseculare, Ottieri qui ha mirato alto con la moltiplicazione di quell’uno che è Tomaso in una serie di
doppioni futili e inerti. Non meno fatuo di loro, perfettamente all’altezza dell’intelligenza dei nostri
giorni (ha scritto fra l’altro, un saggio, Per un’Ecologia dell’Azione debole!) Tomaso è senza qualità
nel frasario, nel tradire e nel mentire, nel dare e darsi parole d’ordine… Ma, da ultimo, egli tocca essere
il testimone, talvolta oculare, di tutte quelle morti e se vi reagisce con apparente banalità, come non
intuire però che muore anche lui in ciascuno dei sette decessi ai quali assiste o dei quali riceve notizia
secondo un’irresistibile progressione “comica”?
Rintocca spesso la parola “colpa”; ed esiste addirittura il “Professor Colpa”, un internista a cui si
rivolge Tomaso in una scena esilarante. Il “comico”, lo ha ricordato Giuliano Gramigna, riferendo
appunto di Ottieri, è tra i fondamenti dell’inconscio e ne caratterizza le espressioni. Ne Le guardie del
corpo –che sonno ahimè guardie anche “della psiche”, freudiane o “iperfreudiane”- si tratta di un
“comico” brulicante di “sofferenza” e “dolore”. Chiusi i manicomi con la legge 180, un bravissimo
psicoanalista e psichiatra Giancarlo Zapparoli, ha creato una struttura -un’“Orga”- lodevole negli
intenti, disastrosa negli effetti. Almeno per il protagonista, monologante o invano dialogante con le
“guardie” che lo sorvegliano a domicilio. Non mollano, chiedono di continuo lumi al “Capo”, a
“Giancarlo” che ormai è un “Guardasigilli”, prigioniero della Struttura che lui stesso ha voluto.
Vittima divisa tra i richiami dell’alcol (“modicamente lecito se ipnoconduttore”) e del sesso (vietato)
l’io farnetica, si strazia. Ogni tensione poi gli si polarizza sul nome di Rio, sull’“idea sessuale di Rio”.
Partire? La disintossicazione si ottiene solo per mezzo del viaggio, ma in viaggio non ci si può mettere
se prima non ci si è disintossicati…. Il circolo vizioso non si allarga.
Fra le molte comparse c’è anche il piccolo nucleo familiare: la “sposa”, una figlia, un amletico
nipotino. Da queste zone e da altre riemerge il “chi fui”, si riassume l’utopia dell’ Ottieri di un tempo.
La figlia lo rimprovera: “Tu non sei più un operista/ sei un immobilista.”
A una (distratta) guardia del corpo egli snocciola «la solita storia/che fui /marxista-freudiano/nell’ora
antelucana/del risveglio italiano./Ero in fase espansiva/ l’ideazione era pregna e fuggitiva»...
Convertire l’“Orga” in un’“orgia” di vino, di sesso. Contrattare con il “Capo” -“faxando” o per
telefono- il numero dei bicchieri consentiti. Un calvario, un labirinto cieco. Soffoco, dunque sono:
l’«Angor ergo sum» è davvero il motto appropriato a questa (in breve) epica della pazzia. Peggio che in
un “gabinetto dentistico”, un “trapano” devasta quella “casamatta” o “casa-cantiere” che è l’io.
Lo tormenta, valvola di sfogo e di salute ipotetica, l’irrinunciabile “idea di Rio.” Una “idea ossessiva”:
ne sentono il fracasso tanto la “”sposa” che la “notturna” (guardia). Le fisime prendono consistenza in
uno spaventoso “tum tum” che è quasi l’arrembante musica d’un libro sordo peraltro a ogni sirena
dell’armonia. Un oscuro messaggio a percussione. Un “verso” indecifrabile.
Che con la sua “ben nota ironia” (ma è piuttosto sarcasmo) Ottieri ambisca, e qui glielo rinfacciano, a
diventare il “Forattini della psichiatria”, è palesemente falso. E comunque la «psichiatria» -
l’istituzione- è lei la più forte; sarà lei a fucilare l’alieno incapace di commuovere quella roccia
tagliente che è ormai Giancarlo. A intervalli e fuori da qualunque raggio di riscontro scientificodiagnostico,
può succedere che l’alieno componga frasi assolutamente poetiche e qui si rivela l’intima
unitarietà del libro:
«Passa, come si dice la vita,/ mentre, s’intende, io sono la morte/ o meglio io sono l’arresto della vita/
io sono il rosso al semaforo,/ l’eterna attesa del verde».


BANDINI E OTTIERI, POESIE CLASSICHE. E TRASGRESSIVE
di Paolo Ruffilli
(«la Nuova Venezia », 3 dicembre 1994)

Novità di poesia, in libreria. Escono, quasi contemporaneamente il nuovo atteso libro di Fernando
Bandini (Garzanti) e un altro poema di Ottiero Ottieri, La psicoterapeuta bellissima (Guanda).
[...]
La psicoterapeuta bellissima, dopo Storia del Psi nel centenario della nascita, dopo Il palazzo e il
pazzo e L’infermiera di Pisa, conferma la vena poetica di Ottieri, un romanziere già da tempo avviato
in un viaggio negli abissi della Psiche. Il romanziere porta in dote al poeta il filo del racconto, sia pure
sfilacciato e aggrovigliato nella forma del poemetto di singole stanze collegate fra loro
continuativamente da un corridoio di passaggio e perfino di fuga. D’altro canto il poeta ha assicurato al
narratore una libertà assoluta, superando qualsiasi problema di azione, luogo o tempo; nel flusso
inarrestabile di un continuum ritmico - sintattico che ne è la cifra stilistica. C’è il mondo che Ottieri ha
rivelato nelle precedenti prove poetiche. L’attraversamento dell’alcol come rimedio alla sofferenza
dell’animo, la pronuncia del sesso come costante pratica della trasgressione, la consapevolezza della
divaricazione incolmabile tra il desiderio della mente e la realtà dei sensi. È la registrazione quasi in
presa diretta (sul nastro di un magnetofono) delle riflessioni di chi ha conosciuto tutte le malattie della
volontà e ha provato tutte le possibili cure, quelle costruite “all’europea” sulla parola e sull’anima, e
quelle fondate “all’americana” sulla chimica e sul corpo.
Le stoccate comiche e le impennate tragiche si alternano continuamente in questa dissacrante
confessione di Ottieri; un viaggio al termine della notte, dal quale la mente riaffiora insieme ingenua e
navigata, pura e corrotta, lucida e tenera. E la voce non ha più incrinatura e riesce a pronunciare senza timore e reticenze anche l’impronunciabile, che è poi il vuoto assoluto in cui galleggia la vita del
protagonista narrante, portatore di una pazzia specializzata. Quella pazzia, che come osserva Giuseppe
Conte nell’editoriale, sa regalare ai lettori versi irresistibili e definitivi nella loro essenza caustica.