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RECENSIONI

DI CHI È LA COLPA (1979)

LA CITTA’ SUL DIVANO DELLO PSICOANALISTA
di Ernesto Ferrero
(«La Stampa», 4maggio 1979)

La strategia creativa di Ottiero Ottieri ha attraversato con bella mobilità molti generi: il romanzo, il
saggio, la commedia, il diario, il poema narrativo, per approdare ora a questi dialoghi dieci, per
l’esattezza, e tutti omogenei. Coerentemente con le sue inclinazioni di osservatore del costume, goloso
di “tutte le visioni del mondo”, Ottieri non vi dibatte astratte questioni universali sulla natura umana,
come vuole la illustre tradizione dell’operetta morale, ma parte ancora una volta per una ricognizione di
quel garbuglio vere e simulate, esibizionismi e angosce, rovelli e scioccherie, smarrimenti e inganni in
cui siamo abituati a muoverci.
Abolendo le descrizioni ambientali e i tempi morti dell’azione, sottendendo le psicologie al gioco quasi
elettronico delle battute, Ottieri vuol concentrarsi sul puro piacere di inseguire qualche verità sia pure
provvisoria e sgradevole. Lo strumento rivelatore sarà la lente del paradosso, con le sue aggregazioni
verbali, le sottigliezze sofistiche, gli affondo ironici e autoironici. Le voci recitanti sono quelle della
Milano ricca e colta che ama ancora esibirsi nelle Capannine versiliesi e affolla i divani degli analisti
con stizza crescente: il playboy patito del footing, la pittrice concettuale che in cambio di velleità di
suicidio cerca la rissa con un Telefono Amico, il giovane artista e la giovane sindacalista che
sublimano un amplesso mancato con una partita di scherma sull’impegno dell’intellettuale verso le
masse, varie coppie di scrittori ansiosi che cercano di armonizzare arte e vita.
Tutta una società senza padri che invano si affanna a spremere certezze e consigli da quelli che per
professione fanno finta di aver capito tutto, e che invece, delusa nelle sue aspettative si aggrappa,
disperatamente, alle tavole ormai fradice del monologo radical-chic. È difficile che tra i sicuri e gli
insicuri si instauri un dialogo autentico: tutti stanno catafratti nel loro ruolo. Il poeta-scrittore-sociologo
nel suo masochismo di imbranato, gli altri, gli uomini di mondo, i maestri di traffici e di concretezza,
gli psicoanalisti e gli amministratori, non arrischiano mai il loro potere e il loro sapere in un soccorso
autentico: lo vendono e subito lo ritraggono con feroce impassibilità corporativa. Il privato non si salda
mai nel collettivo: di qui il continuo rincorrersi e lasciarsi di queste monadi. Nel gran ciarlare che qui si
fa di Dio, Marx e Freud, di viaggi frenetici, metropoli inabitabili, amori precari, ideologie ed economie,
di coazione a ripetere, istinto di morte e psicosomatica, è il dramma dell’insicurezza che si recita
malgrado ogni possibile lusinga del discorso. E tuttavia il piacere dell’intelligenza conferisce
all’intreccio delle voci un sostanziale ottimismo, l’allegria di un’indagine in perpetuo divenire. Ottieri
sa bene che l’unica salvezza consiste proprio nel continuare a osservare e rappresentare questa “società
turbolenta e statica”. Ci sono più intuizioni in questa sua effervescente musica da camera che nei
marchingegni colossal di una sinfonia.


INTERIORS DI OTTIERI
di Giovanni Raboni
(«La Stampa -Tuttolibri», 21 aprile 1979)

Sbaglierò ma ho l’impressione che il romanzo italiano, dopo l’inattesa quanto felice prova d’esistenza
fornita lo scorso anno, sia tornato, nella presenta stagione, al suo consueto e prevalente regime di
latitanza e che al suo posto si vada affermando un genere narrativo o paranarrativo tutto sommato più
congeniale alle nostre lettere, vale a dire quello della breve prosa fantastica o morale.
In effetti, se il solo romanzo davvero emozionante e “nuovo” uscito in questi mesi è Il giorno del
giudizio di Salvatore Satta (cioè l’opera unica e postuma di uno scrittore “irregolare”, non
professionale), sono invece relativamente numerosi i titoli inscrivibili nella vasta e vaga categoria sopra
accennata: dai cento “romanzi in due pagine” di Giorio Manganelli alle cinquanta miniature narrative
di Raffaele La Capria; dai racconti vecchi e nuovi di Giuseppe Pontiggia a questi dieci “dialoghi “ di
Ottieri. E perché non ricordare, nello stesso clima, anche la sorprendente freschezza delle vecchie
prose, testé ripubblicate, di Leonardo Sinisgalli.
Ma veniamo a Ottieri. Se volessimo fare una battuta potremmo dire che dopo averci dato, con il
poemetto La corda corta, il suo Giorno, Ottieri ci dà ora le sue Operette Morali. E, in verità, una certa
acre e desolata limpidità che si respira in queste pagine non può non rimandare a qualche grande
esempio della meditazione leopardiana. Ma attenzione: Ottieri non ci chiama tanto a riflettere sulla
condizione dell’uomo nel mondo, quanto sulla condizione dell’uomo e della società. Il destino e il
tormento dei suoi personaggi non si situano nel vuoto tra nascita e morte, ma nell’abisso momentaneo e
notturno che si spalanca tra libertà e coazione o in quello che la loro malattia li induce a credere tale. I
suoi dialoghi (alcuni dei quali si allargano a vere e proprie invenzioni teatrali, invitandoci a non
dimenticare lo specifico precedente costituito dalla commedia I venditori di Milano, scritta e data alle
scene da Ottieri venti anni fa, mentre altri hanno il ritmo astratto e serrato della finzione platonica), i
suoi dialoghi, dicevo, girano con ossessiva coerenza e al tempo stesso con ammirevole varietà di
strumentazione, su un unico perno il rapporto (di ribaltamento o similitudine, rispecchiamento o
contagio) tra nevrosi personale e nevrosi collettiva, su uno sfondo che è sempre quello dell’alta
borghesia più o meno esplicitamente intellettuale della “capitale del nord”.
Qualche esempio. Nel dittico formato da Lo scrittore e il play-boy e Il campo di distrazione i “divini
mondani” che ammazzano il tempo in una famosa Oasi versiliese sono così presi da una loro eterna
disputa, volta a volta metafisica e cruenta, sul nulla, da non accorgersi che a poche centinaia di metri un
tornado ha veramente “prodotto” il nulla. Nel dialogo-monologo Mondo X Voce amica una pittrice
tentata di suicidio è alle prese con il massiccio silenzio “di quell’ottimo pâté fra psicoanalisi e
cattolicesimo” che viene servito, appunto, da istituzioni come quelle ricordate nel titolo. Ne Il giovane
artista e la giovane sindacalista un coito impossibile fa da filo conduttore a un atroce e spassoso
dibattito sui temi dell’impegno e della responsabilità dell’intellettuale di fronte alle masse. In Che fai
stasera? uno scrittore discute dei suoi problemi (tra cui quello centrale di riuscire a scrivere un libro
migliore del libro che ha già scritto e che tutti, con suo grande dispetto, si ostinano a considerare il suo
capolavoro) con lo psicoanalista o santone che gli fa da guida; e la conversazione, già esilarante di per
sé, è resa ancora più pepata dal fatto che lo scrittore si chiama Dante, la guida, ovviamente Virgilio, e il
capolavoro detestato dall’autore si intitola Commedia [...].
Mi sembra che stia succedendo a Ottieri quel che succede a certi grandi vini: con il passare degli anni,
la sua intelligenza e la sua scrittura diventano sempre più secche, più essenziali, senza tuttavia perdere
nulla della sua sostanza nutritiva. Dopo aver scritto diversi libri importanti, da Tempi Stretti (1957) a Il
campo di concentrazione (1972), Ottieri ne sta scrivendo, ora una serie di mirabilmente agili e lievi,
ventilati e come prosciugati dall’ironia e dalla disperazione (o forse, dall’ironia della disperazione). E
così, oltretutto, riesce a raggiungere un grado davvero insolito, con i tempi che corrono, di leggibilità.
Da questo punto di vista Di chi è la colpa è addirittura esemplare: un libro inflessibile e brillante,
tragico e divertentissimo.