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RECENSIONI

CONTESSA (1976)

TRE DOMANDE A OTTIERO OTTIERI A PROPOSITO DEL SUO ROMANZO “CONTESSA”
di Paolo Ruffilli
(«Il Resto del Carlino», martedì 17 febbraio 1976)

D. È uscito presso l’editore Bompiani, il suo nuovo romanzo Contessa. Il libro si colloca nell’area
dei suoi interessi psicoanalitici: in che senso e con quali novità rispetto alle sue prove precedenti?
R. Il libro si colloca nell’area dei miei interessi psicopatologici . La psicoanalisi ne è strumento
importantissimo, tanto è vero che “psicoanalitico” viene a denominare “psicopatologico”, anche tra i
più avvertiti, ma non tra gli addetti ai lavori. Aggiungo da addetto, forse malgré moi, a lavori, che il
mio romanzo echeggia una analisi di tipo junghiano e non freudiano. Ora, si è stabilito di chiamare
psicologia analitica quella junghiana e psicoanalisi quella freudiana. La psicoterapia del profondo, è
vero, è sempre la stessa, perché presuppone l’inconscio, ma fra metodo freudiano, metodo junghiano e
altri metodi le differenze sono profonde. Sempre, si intende, per gli addetti ai lavori o per quelli che
subiscono gli addetti ai lavori….(i pazienti). Inoltre il mio romanzo non si esaurisce, credo, nell’ambito
di un’”analisi”. Abbraccia il mondo di tutta una clinica psichiatrica e quello che vi è fuori, sia pure in
riflesso a tale mondo. È il problema della psichiatria nuova e vecchia, di questa disciplina che sta
prendendo un posto privilegiato fra le varie scienze umane. E non c’è dubbio che la psichiatria sia
divenuta cultura e tenda a sostituire la filosofia tradizionale.
D. Mi pare di poter osservare che, nel suo lungo itinerario narrativo, (dalla cronaca del
dopoguerra in provincia Memorie dell’incoscienza del 1954, alla tematica industriale di Tempi Stretti
del 1957 e Donnarumma all’assalto, del 1959, fino alla indagine psicoanalitica dei romanzi più noti,
lei ha raffinato a tal punto la sua ricerca linguistica da sfiorare la “sofisticazione”. Cosa ne pensa,
anche in riferimento a quest’ultima prova?
R. Questa “sofisticazione” è per me un’importantissima presa di coscienza. Stava nel mio
preconscio e Ruffilli l’ha portata a piena luce. Ne do una controprova: sto tentando di scrivere un
racconto nuovo, ma in versi, per affrontare una ricerca linguistica nuova, dove io sono rozzo, dove
devo imparare il mestiere. E da tempo ho in mente di girare un film, sulle orme di Pasolini, sempre
appunto per affrontare metodi espressivi per me più bradi, cioè meno sofisticati. Sento benissimo il
pericolo della “sofisticazione” che oscilla fra un eccesso di esperienza, un rococò, un meta-realismo, un
iper-realismo. In prosa narrativa, in questo momento, non ho in mente niente e mi fa un certo ribrezzo
immaginare una “super-prosa”. Le ragioni profonde della “sofisticazione”sono da ricercare e si
possono ricercare: fatto sta che la sofisticazione se può nauseare il lettore come lo zucchero sul miele,
nausea prima di tutto me. Ringrazio lei per aver tirato fuori questa parola coscienza.
D. Mi pare che al di là della problematica specifica (la condizione del dopoguerra, il mondo
industriale, la borghesia arricchita, la nevrosi dell’uomo moderno), il suo interesse sia sempre stato
rivolto alle situazioni della vita contemporanea. Ma perché questo interesse si è concentrato sulla
psicopatologia?
R. Forse per ragioni autobiografiche (da cui bisogna uscire), forse perché invecchiando, o come
invecchio io, si diventa monomaniaci. D’altra parte,quando cominciai ad occuparmi di problemi operai,
mi si accusò di monomania, di operaismo. Mi si diceva: guarda che al mondo non esistono gli operai
soltanto. Altrettanto hanno problemi umani e di classe, per esempio, i venditori. Me lo diceva Adriano
Olivetti, attratto e infastidito dalla mia monomania. Ma se non fossi stato monomaniaco, non avrei
forzato le serrature che chiudono gli operai dentro l’officina. Mi auguro che la monomania di oggi,
oltre ad avere qualcosa di patologico, abbia qualcosa di esplorativo.