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RECENSIONI

IL POEMA OSCENO (1996)

SESSO, PERVERSIONI, VANITÀ TOTALE
di Giuseppe Bonura
(«Il Giorno», 17 marzo 1996)

Leggo e seguo Ottiero Ottieri da anni e ogni volta mi sorprende. Segno che la sua vitalità di scrittore
rilutta fortemente a incanalarsi in una cifra stilistica. Questo sconcerta i suoi critici, ma i suoi lettori
dovrebbero essergliene grati. Con Ottieri non ci si annoia mai, anche se bisogna subito aggiungere che
il divertimento letterario si accompagna quasi sempre a un’acuta percezione della sofferenza umana.
Ormai sulla settantina, Ottieri è fra i nostri maggiori scrittori viventi. È un narratore, ma è anche un
poeta, sebbene a mio avviso la forza del narrare assorba gli slanci lirici, riducendoli a episodi ironici.
Leggendo la sua scheda biografica, ci si accorge che Ottieri è nato a Roma. Ed è questo un dato che
non finirà di rendermi perplesso, poiché io identifico Ottieri con Milano. Quando mai ci sono state le
industrie a Roma? E infatti Ottieri ha cominciato con l’indagare il mondo dell’industria in tutti i suoi
aspetti, compresa l’alienazione. Ottieri è stato, con Volponi, l’inventore della narrativa industriale, o
meglio di fabbrica, avendola conosciuta dal di dentro, in tempi in cui sembrava il perno del mondo, un
microcosmo di vetro che riflettesse l’intera società con le sue divisioni in classi sovrapposte. Poi dalla
fabbrica è passato all’introspezione psicologica, o psicoanalitica. Una lunga e tormentata trivellazione
nei meandri della coscienza, e quindi dell’inconscio, questo pozzo di San Patrizio delle fantasie e delle
nevrosi. Libri memorabili Ottieri ha ricavato dall’indagine del suo Io sepolto e pulsante di dolore.
Talora ha dato l’impressione di cullare le sue angosce come una mamma cullerebbe il suo bambino. In
altri termini, c’è in Ottieri un narcisista tenace, che però soffre veramente, e questo fa la differenza. In
un certo senso la sua sensibilità è rimasta sempre quella di un adolescente viziato, però la
consapevolezza di questa condizione privilegiata, coniugata alla malattia nevrotica, gli ha permesso di
tenere lo sguardo anche fuori di sé, nella società, nel mondo. Anzi, il tema principale di Ottieri è
proprio il rapporto fra malattia individuale e malattia sociale. Non a caso il protagonista di questo
romanzo, Il poema osceno, si presenta con un’intenzione a dir poco eroicomica: “Vorrei dare un colpo
al sesso e un colpo alla nazione”. Come si può vedere, siamo nei dintorni della poetica di Pasolini. Ma
in Ottieri c’è senso del limite e dell’umorismo, per non parlare poi dell’ironia, che accompagna tutto il
poema con una musica di sottofondo. Pietro, il protagonista, è un anziano poeta, che ha già visto molto
e scritto molto. Ama circondarsi di giovani uomini e di giovani donne. Ama essere al centro di ogni
situazione, sebbene prenda in giro bellamente il suo narcisismo. Il sesso è la sua ossessione, ma
attraverso il sesso e le sue perversioni e le sue astute manovre, Pietro “legge” anche la società, dove le
perversioni non sono meno grandi e gratuite. “Immondo milanese clima/ che produci destra
funesta/funaresca”. Non lasciatevi impressionare dai moltissimi versi disseminati in questo poema. Non
siamo in presenza di un’opera di poesia, bensì di un coacervo narrativo, che ingloba diversi generi: dal
copione teatrale della sceneggiatura cinematografica, dal saggio alla poesia, dal romanzo
all’autobiografia, e chi più ne ha più ne metta.
Sesso e morte formano un connubio indissolubile, che lega e avvolge i diversi. In ogni pagina c’è il
nucleo di un romanzo imperniato sull’attrazione fisica e sulla coscienza della vanità di tutto.


LA VITA È UN OSSIMORO
di Silvio Perrella
(«L’Indice», Giugno 1996)

Se vi appassiona il romanzesco, se nei libri cercate una storia, un plot, Il poema osceno, l’ultimo libro
di Ottiero Ottieri, non è un libro per voi. Eppure, qualunque lettore, anche in assenza di tessiture
romanzesche, non potrà non notare come Ottieri riesca a formulare straordinarie sequenze di parole,
laddove pensavamo che il silenzio fosse inespugnabile. Ottieri riesce anche a dire “anche ciò che per
natura si negava a essere detto”, ha sostenuto Andrea Zanzotto. È come se fosse il ritmo a guidarlo; un
ritmo scandito dalla rapidità fluente dei versi e dalla inarrestabile progressione dei dialoghi. Versi e
prosa dialogica si alternano e si intrecciano lungo le ben cinquecento pagine di questo libro. Ottieri,
ancora una volta, dopo il diario narrativo di Donnarumma all’assalto (1959), il saggismo narrativo de
L’irrealtà quotidiana (1966), e la poesia scenica degli ultimi poemetti – da L’infermiera di Pisa (1991)
a Diario di un seduttore passivo (1995) – si pone deliberatamente fuori dai generi. Anche se si potrebbe
immaginare Il poema osceno come una satira menippea.
La percussiva voce dominante del libro è quella di Pietro Muojo, il quale, stimolato anche dalla sorella
Vera, aspira a diventare un poeta civile. Pietro è un bisessuale che non si dimentica mai dell’esistenza
pulsante del sesso; ha una corte di giovani amici e amanti: Lorenzo, Luigi, Samantah, Barbara…, e con
loro intesse fittissime conversazioni e coiti.
Sembra, come una creatura di Beckett, un poeta immobile; scopriamo, invece, che ha corso molto, e
non solo dietro le parole. Pietro ci tiene a farci sapere che “pensa fiducioso all’aldilà senza sminuire
l’aldiqua” e che, dopo essere stato un “vecchio adolescente ora non vive che come uno stoico
bambino”. Ha passione per gli ossimori e, ogniqualvolta gliene scappa uno dalla penna, ce lo segnala.
Pietro è evidentemente un nuovo tono di voce da aggiungere a quella “autobiografia perenne” che
Ottieri non si stanca di orchestrare. L’uso insistito dell’ossimoro credo possa leggersi come una
traduzione letteraria del “bipolarismo”, la parola che gli psichiatri usano per definire i maniacidepressivi;
una delle parole “magiche” adottate da Ottieri. Anche i temi di questo libro sono bipolari e
dunque ossimorici: la vecchiaia di Pietro (ricordo, in questo senso, la sua bisessualità) o di Vera si può
trasformare in improvvisa gioventù; la malattia mentale è anche uno stato di salute (sì “psiche
cottolenghica”, ma anche “vitalità sormontante,/ vitalismo esclamativo”); l’oscenità è anche un
desiderio di normalità (“Egli vuole/ essere normale. È il suo male”); il vivere fisicamente al Nord (a
Milano una “radiografia di una metropoli stecchita”) significa pensare continuamente al Sud (a
Pozzuoli, ad esempio, che “è diventata un tumore immenso, terribile, meraviglioso”); l’irrealtà è una
delle forme della realtà; il disprezzo della letteratura è anche la consapevolezza del suo valore (“Non ho
mai sentito/ fortemente come adesso,/ che la letteratura ha/ un valore, anche se lo nego/ prendendolo in
giro”). E, come abbiamo già visto, bipolare è anche la forma: sia la prosa dialogica (“le righe lunghe”)
sia “smitragliate” di versi (“le righe corte”).
Fermiamoci per un momento sulla malattia mentale; dall’esterno si potrebbe pensare che possa
costituire un limite: è invece un punto di vista globale installato all’interno del dolore. E siccome il
dolore, la sofferenza mentale e corporea sono una fetta sempre più invisibile della nostra vita sociale e
allo stesso tempo dilagante, Ottieri, con il suo sguardo “rasoterra”, riesce a formulare una plausibile
icona dell’umano: “Cerco un mondo dentro il terriccio del mondo”. In quest’ultimo libro, inoltre, la
malattia di Pietro s’incrocia con quella, cronica, dell’Italia: un andirivieni “fra Paese e Io”.
L’istinto satirico di Ottieri coglie quasi con naturalezza le dilaganti brutture morali della vita “civile”
dell’Italia, “una repubblica fondata sulle cambiali”, dove “l’opinione… s’incendia due volte al giorno”
e dove “l’attuale democrazia irreale si nutre di bellicosità lombarda reale”.
Come si sarà capito, Il poema osceno è un concentrato di energia davvero inusuale, dove il poeta ha “il
diritto di delirare”, ma lo fa con consapevole esattezza. L’impressione è che Ottieri abbia voluto
rileggere tutta la sua opera precedente, mettendola a confronto con quella di alcuni suoi coetanei, come
Pier Paolo Pasolini e Paolo Volponi, definiti, insieme a Gramsci, “gli ultimi maestri”. Rileggendo il
senso primario e vitale della sua letteratura, Ottieri sfata luoghi comuni critici (la letteratura
industriale), ironizza su deliranti dibattiti del passato (quello su Metello), descrive con maestria critica
inaspettata opere altrui e sfotticchia quelle di moda oggi. Ottieri, come sempre, scalpita davanti a una
letteratura per letterati e invoca una vita che “deve avere la forma mirabile di un ottonario di Puskin”,
ricordandoci che “la poesia è esatta come un cacciabombardiere”. In questo senso, la sua letteratura
sembra avere le stimmate conoscitive della necessità: “Io non voglio/ fare le cose./ Sono sempre
costretto”. Ed è da questa costrizione che si sprigiona la libertà dell’intera opera di Ottieri, di cui Il
poema osceno sembra essere l’ilare “prologo di un testamento”.