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RECENSIONI

LA CORDA CORTA (1978)

IL DISTACCO DAL MALE
di Gian Carlo Ferretti
(«L’Unità», 15 maggio 1978)

Dopo un’esperienza narrativa di impostazione tendenzialmente “realistica”, Ottiero Ottieri conduce
ormai da tempo un discorso tutto interno a una problematica “psicoanalitica”, con opere che sfuggono
spesso a ogni classificazione di genere. Come quest’ultima, del resto, La corda corta, che il risvolto
definisce “romanzo in versi” e al tempo stesso “poemetto narrativo”.
Un giovane ricco e colto (questa la “trama “essenziale), con una moglie, un’amante e altri amori, vive
la sua nevrosi e il suo alcolismo tra una casa di cura lombarda, un ospedale parigino e rari intervalli; ma
chi racconta e commenta è l’amante stessa, che gli si rivolge come un”io” a un “tu”. Si viene
sviluppando così un fitto reticolo di rapporti clinici e amorosi, non privo degli echi (tenui ma profondi)
del mondo di fuori: un reticolo di rapporti in cui sembra consumarsi lentamente l’esistenza giovane e
malata del protagonista, dominato da una sostanziale incapacità (psicologica e intellettuale) a
realizzarsi, da una costante e insoddisfatta tendenza a “proiettarsi” nel destino degli “altri”. Finché,
dopo violente terapie e autoanalisi sottili, “lucido come una foglia lavata dopo la pioggia”, egli si sente
“pronto alla vita” e “timoniere di se stesso nella vitale procella”. Ma è veramente in questo, e in questo
finale, il senso dell’opera di Ottieri? La sua vera e forte carica di novità viene anzitutto da
un’impostazione satirica, da un distacco ironico e critico nei confronti dei fatti e dei personaggi narrati.
Distacco dalla malattia e dai suoi (quasi paradossali) privilegi: la nevrosi come condizione di
isolamento protetto e deresponsabilizzato, con i suoi rituali quotidiani, nella clinica di lusso; e
nell’ospedale comune, la condizione comunque privilegiata dell’ammalato colto e diverso tra i diversi.
Ma ecco che (ulteriore e più intimo elemento di novità), dentro questo discorso ironico e talora quasi
divertito, la tragedia e l’angoscia e il dolore della malattia, la “corda corta” della “dipendenza”
dall’alcool, la coscienza insomma del male rimane acuta, con la coscienza dell’inanità di ogni medicina
e di ogni fuggevole sollievo, e anche con un sottinteso richiamo a non credere in una troppo facile
guarigione (nel momento stesso in cui, ironicamente, appunto, il malato torna a sentirsi come
verdissima foglia, improvvisamente purificato e mondo). C’è un passo in cui questo discorso nel
discorso trova un’emblematica sintesi: dove Ottieri analizza il rapporto tra “il male” e “la compiacenza
del male”, come un rapporto inscindibile di cui bisogna tuttavia saper vedere criticamente i due
momenti. Perché allora, Ottieri può parlare a ragione (in una sua intervista) di un “allontanamento dai
temi della malattia nervosa e mentale”, di “un salto fuori da una specie di affogamento” e quindi di
nuove e ulteriori prospettive della sua ricerca di scrittore? Per la forza di quel distacco, di quella
coscienza critica, che si esercita attivamente sia al livello della demistificazione ironica, sia al livello
del lucido disvelamento. La satira è quindi tutta funzionale a un discorso interamente articolato e
pregnante, ricco di piani, classico e al tempo stesso sperimentale, costruito con un linguaggio in cui il
termine letterario colto si alterna al termine medico.
La originale struttura poetica in cui questo discorso si realizza è di derivazione dichiaratamente
pariniana, nel movimento generale e nelle cadenze. E lo stesso “tu” protagonista, in fondo, è un giovin
signore rovesciato, attraversato cioè da angosce e consapevolezze che ne fanno un inedito e ironico
drammatico personaggio della nostra letteratura e del nostro tempo.


L’IRONIA DELLA DISPERAZIONE
di Geno Pampaloni
(«Il Giornale Nuovo», 19 aprile 1978)

La “corda corta” come quella che rischia di strozzare il cane legato al piolo, è “la dipendenza”:una
corda, peraltro,strettamente intrecciata. Essa fa dipendere infatti il malato mentale o psichico dalla
malattia e insieme dalla cura, dal terrore che gli ispira la casa di cura e insieme dal rifugio che sente in
essa, e poi dai compagni di cura, e poi dalla nostalgia del mondo dei “sani”, e poi dalla propria ansia
che lo spinge senza requie a cercare “con ansia rimedi contro l’ansia”. La dipendenza si identifica
quindi con il male, “la costrizione che uccide lasciando vivere”, “la malattia mortale di cui non si
muore” (Ottiero Ottieri, La corda corta, Bompiani, 1978).
È un tema questo che Ottieri svolge da molti anni e che sinora aveva trovato l’espressione artistica
mente più convincente ne Il campo di concentrazione (1972). Quel tema lo scrittore usa scandirlo in
due ritmi o momenti diversi e complementari:come condizione del vivere entro una società in crisi (con
quel tanto dunque di teorizzazione e di “saggismo” che comporta la riflessione sulla struttura “uomo”);
e come situazione, autobiografica o comunque narrativa che si oggettiva in ambienti e personaggi.
L’intreccio di quei due ritmi è poi complicato e arricchito dall’autoironia, dalla satira, dalla secca
crudeltà figurativa e da profonde, dilaganti e ossessive anche se non effuse, risonanze di pena.
I risultati sono suggestivi. L’originalità delle soluzioni stilistiche si pone in rapporto diretto con la
singolarità amara dell’esperienza vissuta. Rapporto diretto ma tutt’altro che univoco: sfida intellettuale,
rivalsa semantica, riscatto, ma anche complicità, fascinazione e appunto “dipendenza”.
L’Ottieri cercò una volta di definirlo come “realismo clinico”: ma in questa formula, più riassuntiva
che definitoria, ritroviamo di nuovo tutte le sfaccettature di cui si è detto. Ne La corda corta il
momento narrativo prevale su quello saggistico: ma lo presuppone, lo intride e in certo senso lo fa suo
con apprezzabile fluidità. Almeno in due brani: nell’intero primo capitolo (“Alle Betulle”) e nella
straordinaria suite che ci descrive la ripugnante cura del vomito imposta per creare nel malato la
repulsione dell’alcool (da “Entra la coppia sicaria” di p. 101 sino alla fine di p. 112), mi sembra che
Ottieri sia riuscito come poche altre volte a esprimersi e comunicare.
Il romanzo ha la forma di poemetto in versi (come del resto già Il Pensiero Perverso del ’71). Il
linguaggio è duttile e icastico e così aggiornato nel gergo psichiatrico che l’autore ha sentito il bisogno
di apporvi un piccolo glossario. Ma le vere novità sono altre. Il protagonista non è più “io”, ma “tu”, al
quale si rivolge “io”, figura femminile simile alla protagonista del libro precedente Contessa. Questo
“tu” è una sorta di compromesso tra la prima e la terza persona: e consente all’Ottieri di trascorrere,
quasi in un giuoco continuo di sottintese dissolvenze, dall’oggettivazione all’intimità,
dall’identificazione di sé al distacco, dall’esistenziale al figurativo, dalla memoria
autobiografica all’Ecole du regard. Egli giuoca così su due tavoli: quello dell’agognata asciuttezza
linguistica (“la scrittura ridotta all’essenza della propria insostituibilità semantica”1967) e insieme su
quello dell’infinita ambiguità chiaroscurale della confessione. La qualità forse più originale di Ottieri è
di essere uno scrittore che con lo stesso gesto colpisce e si arrende, aggredisce e si abbandona. La sua
satira ha nel retrofondo l’elegia della satira.
L’altra novità è che, come nella Contessa, il punto di riferimento era il dannunziano Piacere; qui il
punto di riferimento è il D’Annunzio delle Laudi. Facciamo pure tutta la parte che si voglia all’ironia,
al pastiche, al raffinato doppio giuoco ottieriano con il kitsch. Ma questo libro è per molti aspetti una
Leus aegrae mentis, una Laus anxiae vitae. E se da un lato lo scrittore lancia il suo corrosivo
disincantato “realismo clinico” tanto contro la sacralità della malattia, quanto contro quella della
scienza, e tutto sommato si tiene in sottile equilibrio tra disperazione e verbiage, dall’altro lato lascia
trasparire anche un’ombra di epos, un nucleo tragico intatto dall’ironia, in quel deserto angoscioso
“terzo mondo” che è “il mondo della disturbata mente “, in quella “attesa di vita-divenuta col farmacovita”
Anche l’umiliante “dipendenza” anche la schiera degli “impiegati dell’infelicità”, anche le terapie
del vomito hanno una gloria, una possibile classicità, una possibile retorica. La poesia e anche la poesia
della malattia, non ha come dicono, “molti livelli”, non ha
confini.