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RECENSIONI

IL PENSIERO PERVERSO (1971)

SATURA, IL PENSIERO PERVERSO, LA BELTA’
di Pier Paolo Pasolini,
(«Nuovi Argomenti», gennaio-marzo 1971)

Quel maledetto timore degli altri! Quel maledetto bisogno di possedere qualche crisma, sorprendente e
insieme atteso dagli altri!
Ottieri ha destinato il suo libro di versi agli altri: mentre doveva essere un libro non destinato a
nessuno, avrebbe fatto certo un capolavoro: ha fatto tuttavia un libro bellissimo, lo dico esplicitamente
e subito, un libro bellissimo. Ma questo è poco rispetto alla scienza o conoscenza che Ottieri possiede
su quel qualcosa che è la sua vita. Scienza in cui rientra il sapere che è proprio la forza di non essere
vili che manca: e che è proprio da ciò che nasce questo libro. Il primo colpo di sterzo (per usare la
terminologia di “difesa” tipica dell’autore) che Ottieri compie rispetto alla propria verità, è lo
scherzarci sopra. Ciò gli consente di distaccarsi da sé e di prendere le debite distanze dal proprio essere.
Da ciò l’armamentario lessicale di difesa, appunto. Il momento più delicato della confessione è
“corretto” da un richiamo alla complicità col lettore, utente anche lui delle allocuzioni rassicuranti del
linguaggio quotidiano, oggi per eccellenza tecnicizzante. Il timido sorriso che affiora negli occhi del
professore quando cita “tecnicismi” di altri campi, quelli più comuni: o che almeno comuni appaiono
agli altri, mentre per lui sono comunque specialistici e quindi da citare tra virgolette. Tutto il libro di
Ottieri è scritto con quell’angoscioso sorriso che cola dagli occhi.
Il secondo colpo di sterzo è l’adozione del lessico di una tecnica speciale, proprio riguardante il suo
caso, cioè il lessico psicoanalitico. Il terzo colpo di sterzo è l’adozione di un certo sentimento letterario
del “pastiche”, che si aggiunge alla scoperta della tecnica della poesia, dello scrivere in versi.
Il quarto colpo di sterzo è la dichiarazione di neutralità nei rapporti fra il proprio male e il proprio
lettore: neutralità che si manifesta come arbitrarietà. Invadendo motu proprio un campo finora non suo,
quello della poesia in versi. Ottieri vi si aggira con l’aria libera e disponibile di chi non ha ancora
alcuna tessera o patente in tasca, cercando accoglienza e perdono- ma con leggerezza e con
preventivata rassegnazione in caso di rifiuto. Ottieri ha fatto oggetto della propria poesia qualcosa che
per definizione può essere forse descritto, ma certo non espresso. Non credo che nemmeno al suo
psicoanalista questo libro potrebbe essere particolarmente utile: esso cioè non aggiungerebbe nulla a
quanto del paziente si può sapere: ciò che è fenomeno rimane fenomeno, ciò che è sintomo rimane
sintomo. La scienza ha fatto un catalogo, uno schedario e un sistema di tale fenomenologia: il cui
mistero resta ontologico e continua a spiegarsi solo se riferito alla fenomenologia della salute. La
poesia, a meno a dedurlo dal libro di Ottieri, può fare la stessa cosa: può esprimere meglio della
scienza, da una parte, e naturalmente peggio, dall’altra, gli stessi fatti, lasciandoli alla loro sostanziale
inesprimibilità. Come ogni contemplazione, però anche quella della poesia è piacevole: Ottieri ha dato
alla sua poesia lo stesso grado di piacevolezza che ha la scienza quando contempla. Anche il fatto
stesso che sia l’interessato, cioè la vittima, a contemplare il proprio male, non fa altro che aggiungere
piacere al piacere. Se Ottieri per caso- consciamente, com’è probabile, o forse inconsciamente- si era
proposto di non fare pietà, c’è riuscito. Anzi, si è reso oggetto di un interesse estremamente piacevole.
Naturalmente, tale piacere della contemplazione deve averlo provato anche lui, mentre scriveva del
proprio male: perciò l’ironia di cui parlavo prima, se è prima di tutto una difesa, finisce
coll’identificarsi con un’altra specie di ironia, che chiamerei primaria e che è la caratteristica non
velleitaria del grande spirito borghese, che è razionalistico, e quindi ottimista e felice. L’angoscioso
libro di Ottieri è un libro allegro; più allegro della stessa “Satura” di Montale. Perché l’ironia “sporca”
della borghesia, ossia quella esercitata unicamente sugli altri, nel libro di Ottieri è del tutto assente.
Essa è esercitata unicamente sull’autor: e non ha importanza se egli ha prima di tutto assente:e non ha
importanza se egli ha prima di tutto esercitato su di sé per anestetizzarsi e rendersi presentabile in
società:perché, in conclusione, tale fine è andato perduto di vista, e ne è rimasta solo l’ironia buona e
innocente – quella appunto delle grandi opere della classicità borghese. Il piccolo ambiente che
determina socialmente il momento “perverso” del male di Ottieri (male nato in un ambiente ancora più
piccolo e provinciale, reso però cosmico dallo stato infantile), è quello tipico che determina, anzi, vuole
e pretende tale ironia: ma alla fine, nel caso di Ottieri, questa “captatio benevolentiae” finisce piuttosto
coll’essere un atto d’accusa contro la complicità ambientale. Proprio nel momento in cui Ottieri tende
le mani disperatamente dal suo letto per invocare l’attenzione o la stima o la benedizione dei potenti (di
qualsiasi specie), egli resta più solo, con quel terribile sorriso che non gli si spegne negli occhi.
Inoltre, piano piano, la scienza – quella scienza della propria vita di intellettuale costretto da una grave
nevrosi dell’ozio – il letto, la poltrona, la tapparella da cui filtra la luce, il garage, il weekend – si
impone proprio in quanto scienza. Piano piano il libro acquista l’autorità di un’opera di morale,
empirica fin che si vuole, ma sempre obiettiva ed “esatta”. Ogni atto o oggetto nominato è “reale”:
proprio come quando uno scienziato vero dà un esempio e si riferisce a un caso. Anzi, ancora di più.
Ogni verso o ogni periodo del libro potrebbe essere una massima, che si riferisce alla cultura da cui
nasce, insostituibile come la dichiarazione di un testimone. È vero che tutto quello che Ottieri dice,
attraverso la sua scienza morale, ci è in gran parte noto: tuttavia ci interessa come scolari che nella
propria materia imparano qualcosa da qualcuno che ne sa più di loro. È l’esperienza. Un’esperienza
specializzata che ha trovato il modo di esprimersi brillantemente e con ispirata proprietà: e quindi
attraverso nessi continuamente nuovi, piacevolmente sorprendenti. La chiarezza è appunto quella di
uno scrittore morale di massime: ma ciò non esclude l’improvvisazione più folle, anche se sempre
corretta da quello speciale spirito ludico che il conversare mondano. Chi parla è sempre un competente.
Ed è strano come la buona educazione borghese, che impedisce la generosità dell’errore,
l’inopportunità del chiamare le cose col loro nome (a meno di non nominarle tra virgolette) la voglia di
aggredire frontalmente il dolore, la tentazione di far sapere la propria malattia mortale e degradante per
evitare pettegolezzi – è strano che tale buona educazione abbia potuto coincidere con l’oggettività della poesia, e il suo allontanamento dalla materia assomigli o si identifichi con quello della grazia da cui
Ottieri si sente negletto.


SQUILLANTE ESORDIO IN VERSI. IL PENSIERO PERVERSO,
di Andrea Zanzotto
(«Avanti», 30 maggio 1971)

Nell’ Irrealtà quotidiana Ottieri aveva presentato una summa delle impossibili manovre necessarie a
individuare il processo per cui la psiche perde il sentimento della propria realtà, e a precisare, si questo
processo e della lotta che tende a bloccarlo, il significato sociale oltre a quello “privato”. Il suo
tentativo dava origine a un documento del tutto eccezionale, veramente “Incollocabile”. Questo libro
aveva suscitato un’attenzione abbastanza viva, ma inquietudine e disagio si nascondevano dietro al
cerimoniale esorcistico di una accettazione letterario-mondana culminata con il premio Viareggio 1966
per la saggistica. Appare ora, sulla stessa linea di ricerca, che si differenzia nettamente da quella
dell’Ottieri autore di narrativa, Il pensiero perverso, anch’esso un oggetto bruciante, sghembo rispetto
alla norma delle abitudini psichiche, “alieno” nel senso più profondo: ma, proprio per questo, tale da
chiamare in causa violentemente il lettore. “la derealizzazione precedette il pensiero perverso – quale
devalorizzazione”, “ il pensiero perverso sostituì l’irrealtà – passò il dereismo attraverso il vuoto – prima di approdare all’odierno perverso: “Quel male in senso assoluto che è il patimento “conscio”
dell’erosione di tutti i valori perfino di quelli connessi al sentimento dello schema corporeo, si
manifesta in una fantasmagoria di incarnazioni diverse; il suo nome è una miriade di nomi, è “legione”
come quello del demonio evangelico. “perché vi è una vicenda, nel nulla”. Una delle sue peggiori
modalità è il pensiero perverso: quello che si è stravolto dalla sua funzione logica, prospettivizzante,
nel quadro della realtà psichica, per girare a vuoto su se stesso, nella propria tautologia che trova
inesauribili ragioni nell’affermazione della sua pura presenza, in un risucchio annichilente esercitato a
danno di sentimenti, sesso, azione. Il Narciso pensante consuma tutto il proprio eros nell’impatto con
un limite che è interno a Narciso stesso, la sua vita è la contemplazione del se-stesso cancellato proprio
all’atto di questa contemplazione e pur sempre riapparente oltre essa. “Il paziente non si uccide perché
l’ossessivo – è condannato a restare vivo; - per la buona volontà dell’ossessione stessa – che non
ammette un attimo di non-permanenza”. Il pensiero-nulla, in cui la realtà del paziente si risolve,
celebrerà così il senso della propria onnipotenza che è insieme assoluta impotenza. L’io diviene un
anti-io che si istituisce in dio che è un anti-dio e programma un mondo che è anti-mondo. Il pensiero
ossessivo- perverso è di “natura infinito” e dall’alto di questa infinitudine “buca il lavoro- vizio
dogmatico del mondo – da ogni parte lo sfarina, lo abbatte.” Il suo è un “lavoro straordinario” (qui con
una pluralità di significati in cui l’ironia vira al terrore del “fuori”, “extra”) e “l’acefalo incaudato
tempo puro – ha sconfitto la intenzione”;in questo spazio devitalizzato svaniscono i modesti incentivi, i
pretesti che animano la normalità e che riguardano “il produttore di merci – d’opere di “pensieri” di
spassi.” Nella sua feroce autosufficienza il vortice ossessivo si merita quindi le maiuscole proprie del
divino : “l’Alta Mente” “Colui” “Lui dice”. La storia, la vita vera, che si riportano poi ad una tematica
frequente nell’Ottieri narratore, si presentano qui come fatti irrilevanti, a sua remota distanza. Perfino
lo svolgimento della cura e il suo effettivo decorso terribilmente accidentato, o i movimenti della
corporeità (giacere sul letto, abbandonarsi alla “crisi di nervi”) sono intravisti come in un altrove; lo
stesso psicoanalista non solo non è più un punto di riferimento valido in qualche modo, ma è ridotto a
“flatus voci” (“Giancarlo”). Ci si potrà chiedere se abbia un senso, anzi se possa sussistere, la
trascrizione senza mediazioni, muro a muro, faccia a faccia, di una situazione del genere. È la domanda
che sempre si ripropone quando si ripresentano l’esperienze e il problema del limite: di un limite che è
ben diverso dalla negazione dialettica, la quale costituisce un polo all’interno di un campo che si
rivelerà omogeneo. L’opera stessa non ha più alcuna possibilità di porsi come tale: nata contro ogni
progetto, è sedimento, bava del corporeo, nel senso in cui poteva sentirlo uno come Artaud, è
soprattutto negazione della metafora, se nella metafora è sottintesa la tensione al “passar fuori” per
dominare il fuori nell’arco di un collegamento. Eppure mai come in queste situazioni appare in tutta la
sua necessità lo spazio in cui la metafora dovrebbe istituirsi. Non a caso è la poesia, il “poetico” quello
che qui si impone nel gesto dello scrivere (per la prima volta nella storia di Ottieri): metafora globale,
condizionante, intravista all’inizio, nell’attimo d’intermittenza dell’ossessione e subito rimossa.
In questo clima di antinomia, d’impossibilità, i versi vengono avanti per spinte, per accumulo, sommati
sordamente l’uno all’altro: un tipo di poesia ininterrotta- automatica col segno meno (ben lontana
dall’effervescente delirio di tipo surrealistico) che si trascina dietro le ceneri di una logica, i detriti di
una narrazione e perfino accenni di figure retoriche destituite di ogni funzionalità. Il pensiero perverso
fila il suo torvo ron-ron e il fantasma delle “poetiche” righe mozze appare come maligna allusione
all’incatenamento ritmico, secondo la trasposizione che la dinamica ossessionale può mettere a punto. I
vari “pezzi” in cui il libro è diviso sembrano interrompersi unicamente per stanchezza “fisiologica”,
così come l’ironia viene frustrata, è momentaneamente ammessa solo per essere smascherata nella sua
impotenza.
Il pensiero perverso a differenza di quello sconvolto della schizofrenia, che nelle sue esplosioni
inventive spesso investe il sistema linguistico, non ha nemmeno bisogno di compiere questa
operazione.
Qui la lingua, tanto nella sintassi, quanto nel lessico, non risulta particolarmente mossa (anche se non
mancano coniazioni), viene posseduta nel grigiore, depressa nella durèe ossessionale. Non importerà,
infine, riscontrare in questo libro, la presenza di qualcosa che riguardi direttamente una situazione
generale; così come esso sta al di qua dell’autobiografia, per non dire, del documento nosografico. È
appunto, un oggetto: che porta il neutro del puro accadere, di “ciò che sta acquattato –al di qua
dell’umano”, e insieme l’indizio della sua negazione. Ma chi verrà a contatto con questo oggetto non
potrà sfuggire alle sue intimazioni, tenderà a qualificarsi di fronte ad esso, lungo un personale consenso
o dissenso o raccapriccio, verso l’umano e la storia: E queste intimazioni sono proprie della poesia.