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RECENSIONI

I DIVINI MONDANI (1968)

L’ETICA DELL’”HIGH LIFE”
di Vittorio Spinazzola
(«Vie Nuove», 26 settembre 1968)

Per molti connazionali fu una vera emozione quando alcune settimane fa si sparse la voce che Brigitte
Bardot, la grande Brigitte, si era fulmineamente innamorata di uno sconosciuto italianuzzo, il Luigi
Rizzi di Milano o di Genova. L’idillio finì presto e tempestosamente: ma non prima che la stampa
d’informazione ne avesse divulgato i connotati esemplari del personaggio. Non ha sangue nobile, non è
un campione sportivo né un divo dello spettacolo, si tratta solo di un giovanotto che ha abbastanza soldi
per non far niente fingendo di lavorare, ideologicamente tutto impegnato in quella suprema fatica che è
la battaglia sessuale.
Ecco, una figura del genere introduce abbastanza bene alla lettura dell’ultimo libro di Ottiero Ottieri, I
divini mondani (Bompiani). Esso è dedicato ai dominatori della cronaca rosa: aristocratici con quattro
quarti di sangue blu, ma anche indossatrici di bassa nascita, industriali poco affaccendati coi consigli
d’amministrazione e belle puledre dedite all’arte, mettiamo, o alla sociologia o magari aspiranti alla
carriera cinematografica. Comune a tutti è la convinzione che un’occupazione piacevolmente redditizia
sia indispensabile al prestigio personale. Così vuole l’etica della nuova mondanità internazionale, che
mostra di prenderla rigorosamente sul serio. Il racconto si svolge come una cronaca obiettiva,
impersonale: non c’è trama, solo un succedersi di cocktails, pranzi in piedi, pranzi seduti, pranzi in
piedi seduti, defilès, “cacciate” al fagiano o al cinghiale e tanti tanti brancicamenti con donne. Non ci
sono protagonisti o meglio sono tutti interscambiabili anche se domina il campo un Orazio proprietario
di una fabbrica di apparecchi igienici, tutto proteso a introdurre il bidet nel grande mercato
anglosassone. Il fatto è che in questo mondo fasullo non possono esserci vere e proprie individualità
perché ogni persona, pur liberissima di sé è in realtà schiava di un codice di comportamento non meno
rigido di quelli cui obbedivano i dignitari di corte del Re Sole. Le “creature” vengono sedotte sempre
con la stessa tecnica, le feste vengono condotte secondo identici rituali; infine, tutti parlano allo stesso
modo, secondo le norme di un linguaggio inderogabile. Ottieri reinventa molto felicemente questo
particolare gergo, evitando di cadere nella banalità della caricatura e fermandosi su una caratteristica
essenziale: la presunzione di dir tutto con poche parole eleganti e icastiche, salvo poi rovesciarsi nel
luogo comune o cascare nella tronfiaggine ridicola. Ma la comicità dei Divini Mondani non è solo un
fatto di linguaggio: questo modo di esprimersi è intimamente connaturato al ritmo di vita seguito da
gente, quanto più sfaccendata, tanto più febbrilmente, ansiosamente assorta nel rincorrere i suoi
passatempi. Così il racconto assume l’andamento di un balletto sincopato, eseguito da maschere senza
volto e senza interiora. Magari qualcuno si stupirà che una materia così futile abbia interessato lo
scrittore di La linea gotica e Donnarumma all’assalto, libri tra i più significativi della recente
“letteratura industriale”. E può darsi che I divini mondani vada catalogato tra le opere minori, i
cosiddetti divertimenti d’autore. Certo si tratta di un divertimento riuscito in modo quasi impeccabile.
Ma poi quando mai la futilità è stata un fenomeno poco importante? Personaggi come quelli di cui
parla Ottieri ce li vediamo proposti ogni giorno a modelli di vita. L’ideologia del benessere, del tempo
libero, dell’eterna vacanza ha in loro la più efficace incarnazione mistica. Altro che fantasmi
inoffensivi! Sono una realtà con cui ogni lettore di rotocalchi e fumetti è indotto a fare i conti.


DIVINI MONDANI E GIOVIN SIGNORE
di Mario Soldati
(«Il Giorno», 23 ottobre 1968)

Le nozze di Jackie e di Onassis riconducono naturalmente l’attenzione su “I divini mondani”,
miniromanzo di Ottiero Ottieri, apparso soltanto all’inizio della scorsa estate e subito dimenticato o non
abbastanza apprezzato forse per il pedantesco pregiudizio che “era un libro troppo breve”. Eppure si
tratta, nei suoi limiti, di un’operetta riuscitissima, che ritrae con la “high fidelity” di un registratore ma
anche con la secca ironia di un perfetto montaggio della colonna registrata, quell’ambiente dello
snobismo cosmopolita che, in fondo, i nostri scrittori conoscono poco, giudicando sommariamente o
fingendo di disprezzare, mentre la verità è che lo invidiano e, allo stesso tempo, non lo invidiano
abbastanza per superare la propria invidia e per sobbarcarsi alle pazienti, quotidiane fatiche di
frequentarlo come, per esempio, fece a suo tempo Proust frequentando il Cotè des Guermantes.
“Nella stanza da bagno immensa, del tutto nera, le rubinetterie dorate, una sottile musica si spandeva da
un grammofono vigilato da una ragazza graziosa. Un uomo in camice bianco a mezze maniche stava, le
braccia conserte, davanti allo stipite destro di una porta chiusa sul corridoio;Un’altra donna, in camice
nero, stava davanti allo stipite sinistro della medesima porta; un uomo cinquantenne, in calzoni grigio
scuri rigati e giacca nera, straordinariamente signorile, occupava lo spazio tra il lavandino e la porta, in
piedi. L’autista occupava il vano della finestra. Pietro sedeva sul cesso, brillante, nero…In silenzio,
dalla porta sulla camera, comparve Orazio. Di fronte allo specchio posto sopra il lavandino prese a
schiumarsi il viso con grande minuzia… Solo la impalpabile musica occupava la stanza nera dove tutti
attendevano in un profondissimo silenzio spasmodico… Indicò col dito la signorina del grammofono
comandando: “Avanti”. Esplose un disco in prosa [...]”.