biografia
opere
archivio
audio
contatti
eventi

RECENSIONI

L’IMPAGLIATORE DI SEDIE (1964)

HILAROTRAGOEDIA E ROMANZO FILMICO
di Paolo Milano
(«L’Espresso», 12 luglio 1964)

[...] Cineromanzi, se non sbaglio, si chiamano certe narrazioni, di solito molto dozzinali, modellate
sulla trama di un film di gran successo. Il nuovo libro di Ottiero Ottieri (L’impagliatore di sedie,
Bompiani ed.) è l’opposto di un cineromanzo, essendo un romanzo espresso in forma cinematografica.
La “Breve storia” del suo libro, che l’autore ci confida in una prefazione è suppergiù questa.
Lavorando come sceneggiatore “per il più interessante regista italiano”, Ottieri era stato colpito da un
elegante morbo che egli chiama “alienazioe da sceneggiatura”, cioè “dal desiderio di mettersi in
proprio, … di correre l’avventura di quel mestiere poetico-organizzativo, creazionne artistica solitaria
contemporanea all’uso estroverso dell’esistenza degli altri, che è la regia d’autore”.
L’esperienza registica essendogli per il momento negata, e la sua ambizione di narrare essendo
d’altronde sempre viva, Ottieri ha optato per un compromesso: quello di stendere una “sceneggiatura in
una lingua diciamo letteraria,….in modo che le pagine, pur rimanendo tagliate per il cinema, avessero
una loro autonomia” romanzesca. “L’impagliatore di sedie” è il frutto di questa decisione.
La storia è quella di una settimana (lavorativa e sentimentale) di Carlo Armani, dirigente industriale a
Milano, e di un suo week end erotico-mondano a Roma. La donna di Carlo è una signora
presumibilmente affascinante, Teresa, immensamente indecisa sull’abbandono della vita borghese per i
rischi di un amore totale. Su un binario parallelo, negli stessi giorni, corre la vicenda di una segretaria
psiconevrotica, Luciana, che si batte sempre più stancamente contro l’impulso di uccidersi. Uno
psichiatra, alcuni “play-boys” e una “squillo” di alto bordo completano il “cast” poco peregrino.
A me sembra altrettanto difficile giudicare “L’impagliatore di sedie” come film che come romanzo. Le
sequenze cinematograficamente promettenti (tutto il tema, ad esempio, dell’”amore in macchina”, coi
dialoghi dei due amanti invischiati negli ingorghi del traffico, e poi la sosta nel “posteggio erotico”),
sono nient’altro che una cambiale spiccata sull’arte di un eventuale regista.
Mentre le pagine letterarie e descrittive (ad esempio, le varie fasi della disperazione di Luciana) non
riescono veramente romanzesche, poiché l’autore, per dovere cinematografico,vi si limita alle azioni, ai
gesti e alle battute di parlato,abolendo la coscienza, cioè l’anima di ogni romanzo. L’errore di Ottieri,
in questo suo “Impagliatore”, mi pare equivalente a quello dell’ultimo Antonioni, sebbene sia di segno
opposto: Antonioni si illude di poter fare psicologia romanzesca in forma cinematografica, mentre
Ottieri si affanna a strutturare un romanzo nei modi propri del cinema.
E l’impagliatore di sedie? È un personaggio minimo ma simbolico, che appare per qualche istante, un
dolce artigiano, anche lui piagato da una psicosi.


L’INDUSTRIA DIVORZIA DALLA LETTERATURA
di Carlo Salinari
(«Vie Nuove», 6 agosto 1964)

Il recente romanzo di Ottieri (L’impagliatore di sedie, Milano, Bompiani) mi ha interessato molto.
Non tanto per la sua resa artistica che è certamente inferiore a quella di precedenti opere dello stesso
autore, quanto per la ricerca di contenuto e di forma che l’Ottieri vi compie e che, a mio parere, è
suscettibile di notevoli sviluppi. Cominciamo dal contenuto (e il lettore mi scusi questa drastica
schematizzazione di cui mi servo per chiarezza di esposizione). L’Ottieri ci dice nell’introduzione al
libro che egli da qualche tempo si sente sciolto dal “matrimonio fra letteratura e industria” che aveva
celebrato negli anni passati, che anzi “la letteratura legata in maniera diretta ai temi della vita
industriale” dopo essere stata persino di moda gli sembra terminata e che ora si sente attirato da “trame
più intime, individuali e libere dal condizionamento sociologico”, addirittura dai temi eterni
dell’amore, della speranza, dell’amicizia e così via. E appunto un romanzo d’amore vorrebbe essere
questo Impagliatore di sedie, un romanzo d’amore che tuttavia, per la vocazione realistica d’Ottieri,
diventa un romanzo dell’impossibilità dell’amore, in una società alienata, perché l’amore si rivela
“l’inarrivabile traguardo d’un uomo e d’una società utopisticamente guariti”. Il romanzo ci narra così
dieci giorni di vita di alcuni personaggi: Carlo, direttore d’azienda milanese, diviso fra l’efficienza
produttiva, le attrattive della dolce vita (e a Roma egli passa un lungo weekend) e la vaga aspirazione a
un grande amore; Teresa incerta fra l’amore per Carlo e la comoda situazione che le offre il marito;
Luciana che la solitudine, l’incapacità di comunicazione, la mancanza di un amore vero conduce
sull’orlo della pazzia.
Dicevo che il contenuto mi interessa perché io non ho mai creduto che per scrivere un romanzo sulla
civiltà industriale si dovesse necessariamente parlare di una fabbrica, delle sue macchine, del taglio dei
tempi e così via. E non ho mai creduto che per scrivere un romanzo realista fosse indispensabile
rappresentare operai e contadini, scioperi o occupazioni di terre, lotte politiche o sindacali. Non ho mai
creduto, cioè, che l’arte potesse conoscere, con i suoi mezzi, la realtà del nostro tempo prescindendo
dal nesso insolubile che esiste fra eventi collettivi e sentimenti individuali, fra vita sociale e
comportamento privato. Anche una storia d’amore, dunque, può racchiudere, come in un nocciolo, il
significato e le tendenze della nostra epoca: o in senso negativo, con l’impossibilità che essa si realizzi
in un ambiente in cui anche la passione amorosa si muove fra i due estremi dello snob e della follia, o
in un senso positivo con la riconquista di un sentimento autentico, di un rapporto sincero e completo fra
due persone che è obbiettivo non
secondario di quel nuovo umanesimo a cui aspira una gran parte degli uomini. Il libro di Ottieri,
tuttavia, è interessante anche dal punto di vista della forma. Perché ci troviamo di fronte a un testo
letterario che ha l’andamento di una sceneggiatura cinematografica. Naturalmente della sceneggiatura
non ha l’approssimazione linguistica (perché non prevede che la parola sia completata dalla mimica
dell’attore) e, in più di una sceneggiatura, ha una minuta descrizione di ambienti e gesti. Il racconto,
così viene ad essere formato da dialoghi e da lunghe didascalie. Della sceneggiatura, però, ha la
divisione per scene e il passaggio rapido da una scena ad un’altra e talvolta il contrappunto fra varie
scene. E del cinema ha, in molti casi, la tecnica stessa della rappresentazione. Si veda, ad esempio,
questo tentativo di Carlo di voltare a sinistra con la sua macchina: “ma di fronte gli corrono addosso
per punirlo decine di macchine colpendolo coi fari, da dietro lo incalza di lampeggiamenti un torrente
di macchine da cui cominciano a levarsi quei colpettini di claxon che preludono al gran
concerto…Girato di traverso ora è accerchiato. Si impegna con cento occhi per sgomitolare
l’imbroglio. Il guantone bianco di un vigile avanza oltre il parabrezza”. Tuttavia la cosa più importante
è che dal cinema l’Ottieri ha preso la rappresentazione per linee esterne dei personaggi e dei loro
pensieri, la rappresentazione, cioè, solo attraverso le loro parole, i loro gesti, le loro azioni. Una tecnica
del tutto contraria al monologo interiore, sulla quale varrebbe la pena insistere (Ottieri, invece,
annunzia già un romanzo condotto per linee interne).
Perché le grandi tappe del realismo, sia pure nei modi diversi suggeriti dai tempi diversi, hanno sempre
coinciso con ritorni a una tecnica obiettiva: e mai come in questo momento la verifica nell’azione e nel
dialogo del flusso dei sentimenti interni dei vari personaggi potrebbe costituire un argine alle tendenze
irrazionalistiche, alla scomposizione della personalità umana contro le quali deve cominciare a lottare
un’arte veramente d’avanguardia.