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RECENSIONI

I VENDITORI DI MILANO (1960)

I VENDITORI DI MILANO
di Roberto De Monticelli
(«il Giorno», 22 marzo 1960)

Con la commedia di Ottiero Ottieri “I venditori di Milano”, rappresentata ieri sera al Gerolamo, nel
corso dell’interessante stagione di novità italiane, da un gruppo di giovani attori, con la regia di
Virginio Puecher, è la prima volta che vengono portati sul palcoscenico l’ambiente autentico e la
comune fauna di una media azienda industriale milanese di questi anni.
Chi sono “I venditori di Milano”? Coloro che dirigono gli uffici commerciali di una qualsiasi azienda o
comunque vi lavorano o ne dipendono; ma soprattutto, essi costituiscono una singolare, irrequieta,
lucida e insieme torbida, nevrotica, insinuante, allucinata e patetica casta di condannati a una
vocazione: vendere, vendere, non importa che o come, ma vendere. Il ciclo della vita precipita per loro
in questo baratro.
Non potremmo dire- nonostante si tratti di un copione di oltre centottanta, pagine- che accadano molte
cose, che esista una vera e propria vicenda organica. Si tratta piuttosto di uno studio di ambiente e di un
notevole tentativo di linguaggio: rendere cioè, attraverso le forme di un parlare tecnicizzato, funzionale,
vagamente assurdo e insieme banale (che è poi la lingua in uso nell’area del “fatturato mensile”, dello
“stand in fiera”, dei “diagrammi di vendita”) una irrequietezza, una perplessità, in definitiva
un’angoscia tipiche dei nostri giorni e di questa città.
Certo, anche in questo caso –come in quello della recente “Maria Brasca “ di Testori- bisogna
prescindere da quelle che sono le comuni convenzioni del teatro, per cui una commedia deve seguire le
sue brave regolette, al macchinetta dei tre atti funzionare secondo un plausibile gusto sentimentalepiccolo
borghese e la gente uscire di teatro soddisfatta, compiaciuta dopo aver capito tutto, fino
all’ultima virgola,sì che nemmeno un dubbio, una inquietudine, affiori la sua massiccia indifferenza di
fronte ai tentativi nuovi.
Del resto, c’è anche una storia per chi proprio non può farne a meno, e persino d’amore: ed è la storia
di come Lucio Davoli, ingegnere, capo dell’ufficio vendite di una ditta di frigoriferi arrivi a poco a
poco a liberarsi dal complesso della gerarchia, dell’ocscuro legame che nel subcosciente lo vincola -e
lo condiziona- al suo superiore, l’A.D., l’Amministratore Delegato: è una fuga triste, d’altronde, una
rottura amara, che dà nel grottesco. Ma più che questa storia, più che l’ambigua vicenda sentimentale di
questo personaggio con la segretaria dell’Amministratore Delegato, sono interessanti, nella commedia,
le spie calate a indagare un mondo modernissimo, assai aggiornato sulle cosiddette conquiste della vita
attuale, e soltanto apparentemente palese, svelato, in una parola accessibile.
Sesso, psicanalisi, scienza della pubblicità, tran-tran, carrierismo, cortigianeria, solitudine, sentimento
dell’alienazione sono le componenti di quel mondo e i motivi sui quali l’Ottieri svolge queste sue
variazioni dialogate, con indubbia sincerità, acutezza d’osservazione, una tristezza partecipe e insieme
distaccata, critica. I difetti stanno (ed è persino ovvio rilevarlo) nella mancanza di costruzione, nel
modo un po’ farraginoso e confuso con cui questi diversi e interessanti materiali vengono accatastati a
formare un edificio piuttosto grezzo, ancora rudimentale nel suo coraggioso sperimentalismo: nella
difficoltà che la commedia incontra, specialmente nel secondo e terzo atto, a districare le storie interne
di due o tre personaggi principali dall’amara e ricca “causerie” che d’altra parte la sostiene come
ragionamento intellettuale, come cruda e risentita “moralità”. Virginio Puecher s’è trovato davanti a un
testo di difficile realizzazione scenica, per la stessa originalità del tema: ha affrontato l’impresa con
impegno, coadiuvato da una buona scenografia di Carlo Tommasi. A nostro parere, avrebbe dovuto
accentuare il tono di quel mondo particolare, così sidereo e tecnicizzato. Per questo avrebbe avuto
bisogno di un palcoscenico più vasto. Bisogna dare atto al giovane Mario Mariani di un impegno e di
una fatica generosi nel personaggio del protagonista. Ci sono piaciuti il comico Alfredo Bianchini,
Camillo Milli, che avremmo preferito meno macchiettistico, l’intensa Anna Nogara, Silvia Monelli e,
quantunque un po’ troppo bonario, Mario Maranzana. Il pubblico ha seguito con attenzione e ha
vivacemente applaudito tutti e tre gli atti. Una serata inconsueta.